martedì 17 maggio 2016

Sono stato Schillaci

SBUCÒ dal nulla e aveva gli occhi a palla. I gol in B col Messina lo portarono alla Juve. Un anno di Juve lo portò ai Mondiali. I Mondiali del '90 lo portarono in cima. Totò Schillaci è stato un lampo, fra presidenti discussi, arresti in famiglia, telefonate registrate dall'anti-mafia, il dolore per la droga di suo cugino Maurizio: lo racconta nell'autobiografia "Il gol è tutto", domani in libreria. «La gente pensa che esista solo il campo. Invece per resistere nel calcio bisogna accettare altre cose. Io le ho accettate. Se vuoi essere un personaggio, devi stare al gioco. La sincerità è un bene a cui si rinuncia. Perciò esiste il calciatorese, quella lingua in cui si parla e non si dice niente».

Che cosa non racconta un calciatore?
«Alla mia prima partita, nello spogliatoio del Messina, c'era un barattolino di perline rosse. Pastiglie di Micoren. Ognuno ne prendeva due, servivano a spezzare il fiato. Le presi anch'io, fidandomi dei medici».

Era il prezzo da pagare?
«La mia vita è stata difficile. Sono nato di sette mesi, i nonni mi scaldavano con bottiglie d'acqua calda. Abitavamo in via della Sfera 19. Un segno. La sfera era il pallone e il 19 la maglia ai Mondiali. Al Cep avevo cattive compagnie, ma il calcio mi distraeva, e per distrazione mi sono salvato. Non andavo volentieri a scuola, ma i pericoli so vederli».

La mafia?
«Gli anni '90 a Palermo sono stati terribili. Ho aperto tardi gli occhi. Pensavo a giocare, per me la mafia era una realtà locale. Il pizzo, il totonero, le bische. Finché una sera, in ritiro, Trapattoni si avvicina e mi fa: avete ucciso anche Falcone. Gli risposi: mister, ero con Baggio, chieda a lui cosa ho fatto. Non scherzava, l'aria era pesante. Ma andai a ripeterglielo quando lasciai la Juve: non l'ho ucciso io, né quei siciliani che non meritano pregiudizi. Non vengo da una famiglia benestante. Mio padre ci portava al mare a Mondello, al posto del salvagente avevo una camera d'aria per stare a galla. Ho fatto il panettiere, il gommista, l'ambulante, ho consegnato il vino, vendevo frutta. Volevo dei soldi in tasca, il calcio è stato la mia camera d'aria. Giocavo per ore col Super Tele, il pallone leggero. Nemmeno Pelé ci fa tre palleggi col Super Tele».

È più insidiosa la celebrità o la povertà?
«La povertà l'ho superata, la celebrità l'ho sofferta. Non volevo essere famoso, volevo giocare a pallone. La mia vita è cambiata senza che cambiassi io. Quando accettai l'offerta del Jubilo, ai giapponesi dissi: voi siete penultimi in classifica, io da bambino ero ultimo. Bersaglio dei bulli. Fra i 17 e i 34 anni niente è stato normale. Per tirarmi fuori dai guai, il calcio s'è preso i miei anni migliori».

Lei racconta di fughe dai ritiri e donne disponibili.
«Per un calciatore il sesso è facile. Cercavo attenzioni. A Torino sono stato discriminato. Offese, sfottò, le scritte sotto casa. Andai in crisi. Convertivo la rabbia in sesso. Ho tradito molto. Ma il tradimento è come una bibita gasata. Toglie la sete subito, poi hai di nuovo la gola secca».

Si pente di qualcosa?
«Sbagliai a minacciare Poli dicendogli: ti faccio sparare. Ma lui aveva sputato, il gesto più volgare. Chi ti vuole sparare, dai, non ti avverte. E mi pento di quella volta con Baggio. Leggevo certe cose su mia moglie Rita, ero furioso. Lui col piede muoveva il giornale: non darci importanza, ripeteva. E muoveva il giornale. Mi alzai e gli diedi una testata».

Fu difficile lasciare Rita Schillaci?
«Rita Bonaccorso, perché Schillaci? La Juve non voleva che ci separassimo. Portavo in campo i tormenti. Gossip, malignità. Tutti a telefonarmi quando Lentini ebbe l'incidente mentre andava da lei. Negli stadi insultavano. Non bastava terrone e mafioso, non bastava il coro "ruba le gomme". No: pure cornuto. In società non ne parlavano, ma le persone intelligenti accennano, fanno capire. Comprarono Vialli. Dovetti andar via. Ora sono cambiati i tempi, dopo Gianni Agnelli vedo che è cambiata pure la Juve. Sui capelli lunghi, sulla puntualità, sugli amori».

Alla Juve non piaceva nemmeno come parlava. Le diedero un'insegnante di italiano. Lei provò a portarla a letto.
«Non ero l'unico a non saper parlare. La maggior parte dei calciatori è ignorante. Guardate come sbagliamo gli investimenti. Una donna semplice come mia madre è stata sempre più brava di me a capire quali fossero le persone di cui non fidarsi».

Sbagliò a fidarsi pure della politica?
«Candidarmi a Palermo non fu una mia scelta. Vennero a chiedermelo persone a cui non potevo dire di no. Mi hanno convinto a portare voti a Forza Italia. Sono stato spesso usato come un gioiellino da esibire».

Perché oggi è fuori?

«Ho una scuola calcio a Palermo, spendo il mio nome per gli altri. Se avessi fatto l'allenatore, avrei ripreso la solita vita. Alberghi, aeroporti, stadi. Questo è. Ma preferisco vivere. Ora se vado a Parigi, la torre Eiffel la vedo».

E come sono i ragazzi italiani?
«Si fanno portare la borsa dalla mamma. Invece dovrebbero imparare a portare il peso delle responsabilità. Non sono abituati. Quando sbagliano, è sempre colpa degli altri».

Chi le piace nel calcio attuale?
«Ho conosciuto Maldini, Baresi, Tacconi, Bergomi. Non ce ne sono come loro. Vedo ragazzi irrispettosi, come irrispettose sono le società verso le loro bandiere. Il mio calcio non c'è più. Nel mio calcio potevi scommettere cinquemila lire con Gianni Brera se scriveva che non avrei segnato di testa. I suoi articoli dovevo farmeli spiegare, ma gli dimostrai che di testa facevo gol».

Cosa sanno i suoi figli delle notti magiche?
«Jessica s'è laureata senza far sapere di essere mia figlia. Mattia è all'università. Nicole vive in Svizzera con la madre. Sono stato assente ma gli ho consentito di studiare. Spero non sia stato un peso chiamarsi Schillaci, anche se qualche effetto negativo l'avranno provato. Io mi sono sempre raccomandato: se c'è chi sparla di me, non rispondete. Mai. Certe volte, la lingua migliore è il silenzio».

(su Repubblica, il 16 maggio 2016)

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