martedì 24 maggio 2016

Pantani e la torrida tristezza: vita da ciclisti




Ieri, giornata di riposo, ho lavorato più del solito. Penso a voi, cari lettori, e taccio tutto il possibile per tenervi informati. Dopo tanto gridare al telefono fino a mezzanotte per giungere a tempo in pagina, ieri sera mi hanno dato l’occasione di dire quattro parole alla radio. “Parli piano e calmo” mi hanno consigliato. Finalmente, mi sembrava di respirare. M’avete ascoltato? Parlavo del Giro. Oh! Se avessi potuto ascoltarmi, io stesso, in una piazzetta del mio paese... [1].


"Come tutti sanno – o non sanno – la vita di un ciclista è una lunga commedia a soggetto che egli va recitando dapprima pieno di supponenza più o meno ben recitata per coprire le incertezze, e poi, raggiunto un dato livello, di grandi sacrifici per conservare alto il nome, per tentare imprese sempre più difficili in una scalata continua, mentre la fama si afferma, ma gli anni passano inesorabili, e dove l’esperienza detta una sua facile legge, ma la fatica è sempre più pronta a colpire e a farsi strada. Sinché si arriva al crollo o, nei casi di maggior prudenza, a un ritiro prematuro come certi cantanti che escono dalle scene prima che la loro voce divenga tremolante e incerta" [2]. “Un ciclista è un impasto spesso indecifrabile di muscoli e di sogni, e a volte i muscoli spingono i sogni, a volte accade il contrario” [3]. "Il ciclismo è una storia di uomini come il western. Le storie di uomini abbondano di vicende commoventi (un esempio per tutti il famoso scambio della borraccia tra Bartali e Coppi, o gran bontà dei cavalieri antichi). Viene il sospetto (un vecchio sospetto) che quando sono da soli, senza donne nei dintorni, agli uomini piace piangere. Piangere di cose che lasciano le donne del tutto indifferenti. In fin dei conti qualcosa del genere racconta Paolo Conte nella sua canzone Bartali, una canzone neo realista. Sì, è vero, davanti a certi cedimenti emotivi degli uomini, alle donne vien sempre voglia di far la pipì. Perciò nel gran circo Barnum del Giro (come lo chiamava Pratolini) alle donne viene affidato il ruolo puramente decorativo della miss dal bacio frettoloso. Lo spirito della carovana, come dice Cordelli, è “più quello del convento che quello della caserma”. E questo non è piccola parte del suo fascino" [4].
"I poveri sono matti, diceva Zavattini. Anche i ciclisti, vorrei aggiungere. Non fuori di testa, ma con quel briciolo di pazzia che li porta a scegliere uno sport di estrema fatica, di molti rischi, di guadagni relativamente bassi. Una volta, era normale, quasi automatico. La bici servì a Binda per non continuare a fare lo stuccatore, sia pure in Costa Azzurra, a Coppi per sottrarsi alla zappa da usare sui costoni argillosi di Castellania. Erano e sono stati, per molti anni, ciclismo e pugilato lo sport degli affamati, il treno su cui saltare in cerca di fortuna. E pazienza se non era l'Orient Express ma una terza classe fumatori, di quelle su cui saliva Fiorenzo Magni su fino al Nord, dormiva come poteva, sempre con un occhio alla bici, e poi vinceva il Giro delle Fiandre. A volte ho pensato che il ciclismo fosse, per i poveri, una soluzione come il seminario: una bocca di meno in casa.
La vocazione serve ai preti e serve ai ciclisti. A chi stanno più a cuore le anime, a chi i corpi. Ma si è sempre a metà: correre a piedi, correre in bici, e l'uomo è ancora il motore di se stesso, correre a motore. I nostri figli certi lavori non li vogliono più fare, si continua a sentir dire in giro, per questo c'è bisogno degli immigrati. Sì, ma come la mettiamo con certi sport? Isoliamo per un po' il doping, che comunque è un rischio in più, e gravissimo. Con o senza, è una fatica da bestie, anche se le bici pesano meno, anche se le strade sono più lisce, anche se i chilometraggi sono più miti, anche se gli alberghi non sono più topaie, anche se si è seguiti da un medico o da un preparatore atletico (fin troppo, talvolta)" [5]. "Garretti forti, denti forti e stomachi forti, i corridori non si occupano di gomme, né di pedali e nemmeno di sellini; si occupano di grossissime bistecche, di cotolette dalle proporzioni impressionanti, di sfilatini di pane e di cosciotti di capretto arrosto" [6]. "Il ciclista si guadagna il pane lontano da casa, come gli emigranti stagionali e i soldati, e dico soldati perché esiste il capitano per definizione, mentre il tenentino è un giovane di belle speranze e il sergente è il più vecchio, tant'è che lo si definisce anche direttore sportivo in corsa. C'è l'attacco improvviso (il raid) e quello preparato a tavolino, ci sono le alleanze, per simpatia o per quattrini, ci sono le grandi manovre, le fughe (ma chi va in fuga nel ciclismo non è un disertore, è un eroe, c'è una bella differenza). Ci sono gli agguati, le imboscate, le trattative segrete, quelli che hanno studiato dicono che il ciclismo è una chanson de geste, tirano in ballo Omero. Ettore era uno pulito, Achille un dopato" [5].
"Il mondo dei corridori di bicicletta è misterioso come quello dei cavalli. E, tutto sommato, nessuno ne sa nulla. Fanno proprio sul serio questi uomini quando si curvano sul manubrio e, dimenandosi sul sellino con moto ondulatorio, divorano la strada a 45 chilometri all'ora? I loro volti contraffatti, gli occhi iniettati di sangue, il sudore che gli cola dalla fronte, le piaghe che gli arrossano le cosce, conseguenza del sole e delle cadute, rendono straordinariamente verosimile la loro commedia, se di commedia si tratta" [7]. "Un ciclista sogna la grande fuga, l'andar via da tutti, l'isolamento, tutte cose che sono l'altra faccia della morte ma in qualche modo la evocano. Il ciclista è un personaggio buzzatiano, e infatti Buzzati sui ciclisti ha scritto pezzi bellissimi: a volte, come i messaggeri dell'imperatore, si spinge così lontano che non torna più. Il ciclista può essere Bertoldo. Un vecchio suiveur, ma ormai lo sono anch'io, mi ha raccontato di un gregario toscano al Tour negli anni '50, sono indeciso tra Ferlenghi e Falaschi. Allora, si raccoglievano le dichiarazioni di tutti gli italiani, non solo di Bartali o Coppi. "Com'è andata, eh?" indagò un giovane cronista al termine di un tappone pirenaico sotto un sole che c'è solo sui Pirenei. "Su e giù, su e giù, come pulirsi il culo a revolverate" fu la risposta. Il ciclista gira il mondo, una volta erano Belgio, Francia e Spagna, adesso anche Malaysia, Qatar, Giappone. Gira il mondo ma non lo vede, non può guardare i paesaggi né i monumenti. Gira il mondo e mangia sempre le stesse cose. Vede solo lettini per il massaggio e camere d'albergo, che nel tempo si son fatte più confortevoli. Ho visto Merckx e altri 80 corridori dormire nel liceo di Luchon su brandine stese nei corridoi, sei docce e sei wc per tutti, prendere o lasciare. Prendere, se non prendi non sei un ciclista e in più l'organizzatore ti sbatte a casa perché non si può rifiutare l'alloggio assegnato. E allora, perché oggi uno non sceglie il tennis, il golf, la pallavolo? "Per passione" rispondono i ciclisti. Passione ha la stessa radice di patire e patire è un po' morire. Questo non spiega tutto ma molte cose sì" [5].
"I corridori di bicicletta sono gente semplice, che non è mai stata in collegio (...) Difficilmente essi cercano di sminuire la vittoria dell'avversario e non gliene serbano rancore. Sono capaci di delicatezze che non credo esistano negli altri sport" [8]. "I ciclisti sono gente strana, ragionano a modo loro. Un calciatore serio non fa venti metri di corsa per inseguire una palla persa, un ciclista sconosciuto fa duecento chilometri solo per dimostrare a se stesso quanto sa soffrire" [9]. "Andate a vedere cos'è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza per cercare di ritornare con quei sogni di uomo" [10].
note
[1] Alfonso Gatto, l’Unità, 7 giugno 1947
[2] Luigi Gianoli, la Gazzetta dello sport, 1984
[3] Gianni Mura, la Gazzetta dello sport, 1968
[4] Antonio D’Orrico, l’Unità, 31 maggio 1992
[5] Gianni Mura, la Repubblica, 11 maggio 2011
[6] Achille Campanile, 1932
[7] Indro Montanelli, Corriere della sera, 4 giugno 1947 in "Indro al Giro", Rizzoli, 2016
[8] Indro Montanelli, Corriere della sera, 13 giugno 1947, in "Indro al Giro", Rizzoli, 2016
[9] Gianni Mura, la Repubblica, 29 luglio 1997
[10] Marco Pantani

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