giovedì 12 maggio 2016

Le favole abruzzesi di Montanelli


"Il Giro d'Italia scoprì le montagne il 18 maggio 1909 nella Chieti-Napoli. Erano 246 chilometri di polvere e ghiaia: la corsa affrontò le salite di Rocca Pia, Castel di Sangro, Rionero Sannitico e il Macerone. Quest'ultimo, seppur alto solamente 648 metri, era il vero spauracchio. I corridori, però, lo dovettero affrontare su biciclette senza cambio, che pesavano anche 15-16 chili, su strade primitive, solcate da carreggiate profonde. Solo Giovanni Gerbi, il mitico Diavolo Rosso, riuscì a non mettere piede a terra, anche se poi fu Giovanni Rossignoli a vincere la tappa" [1].Dopo ventinove anni oggi si torna sulla salita di Roccaraso.
Il Giro"ha preso l’Italia come un mastro da legno prende un tronco d’albero; e l’ha segata per benino in più pezzi, preoccupandosi soprattutto che i denti della sega toccassero insieme i punti di due delle infinite stazioni termali, balneari, montane o comunque turistiche di questa nostra benedetta Italia. Il guaio è che ciò che la sega taglia è quasi sempre una sezione appenninica o alpina: il lettore s’immagini cosa ne viene di Sali e scendi e di volta e strizza" [2]. "Abbiamo fatto una breve sosta a Campomarino, per rifornirci di pane e formaggio. Si era entrati nel Molise. Per caso ci siamo fermati proprio davanti alla sezione del PCI. C’erano i compagni e c’era il sindaco, che è un compagno. In pochi minuti ci hanno informati: l’amministrazione è di sinistra dalla fine della guerra, e così anche in altri tre comuni viciniori: la chiamano la “fascia rossa”. La popolazione è di origine albanese, e parla ancora albanese. Un vecchio compagno mi ha detto, mezzo in italiano e mezzo in albanese, di riferire a “quelli di Montecitorio” che lì a Campomarino e in tutto il Molise, non c’è il “Mezzogiorno”, c’è la “mezzanotte”: “Il Mezzogiorno è a Roma, a Milano. In sezione ho visto una stampa a colori portata da Cleveland (Usa) nel 1912. Può essere l’antenata di Ben Shan. Titolo, in italiano e inglese: La piramide del capitalismo. C’è, sulla punta, il capitalista in poltrona, che fuma il sigaro: e a mano a mano che si scendono i piani trasversali sempre più larghi, c’è il prete che prega per il capitalista, il soldato che spara per il capitalista, e in fondo, sotto il piano più largo, la massa dei lavoratori che reggono sulle loro schiene tutto l’edificio" [3]. "La strada è una spada tagliente che incide. Per non ferirsi bisogna brandirne l'elsa" [4]. “La verde conca di Isernia. La strada diventa asfaltata. La campagna sembra ricca, coltivatissima. Ma c’è uno strano silenzio nell’aria. E non si vede un contadino, né un passante, a pagarlo oro. I cascinali che fiancheggiano la strada sono chiusi e deserti” [5]."Mi parlassero di naziskin a Isernia, non ci crederei" [6]. "Quando si passa da Rionero Sannitico noi andiamo a mangiare in una casa che è un negozio e vende di tutto ma c’è anche la cucina e ci si mangiava, quattro tavoli a piano terra con le tovagliette di plastica, c’è buio e fresco attorno. A mandar avanti tutto sono tre vecchie, gentilissime sorelle tutte vestite di nero, anzi, con scialletti pure neri, sembrano appena uscite dalle pagine di Palazzeschi. Noi siamo gli ospiti d’onore, andiamo al piano di sopra, in casa, nella sala da pranzo col soffitto stuccato, gli specchi appannati, il toro di Siviglia, la finta ceramica di Papa Giovanni, le foto dei nonni, la bottiglia di elisir. Le sorelle scarpinano su e giù per la scala, prosciutto di montagna, pasticcio di maccheroni, bistecca e insalata, pecorino dolce, mele e pere, caffè, mille lire ma non è questo. È il fatto di passare così in fretta e di trovare persone gentili e di andarsene in fretta, una dice che ha le mani bagnate, le stringiamo un’estremità dello scialletto. C’erano anche quelli dell’Équipe. Com’è Parigi, ha chiesto una nipote delle vecchie. È bella, ha detto J.C. che parlicchia l’italiano, ma anche qui è molto bello. Lei ha sorriso" [7].
"Una volta la folla aveva un color grigio e verdognolo. Il grigio era la borghesia, il verdognolo la vita militare; quello che s’era avanzato del corredo militare. Moltissimi italiani portavano, a consumo, un vecchio pantalone grigioverde «grattato». Poi, c’era il grigio dell’abito borghese, sogno dei «congeda’». Tutti gli italiani, per venti anni, hanno avuto l’aria dei «congeda’». In campagna, piaceva il grigio azzurrino, il grigio rosato, il grigio violaceo. Certi riflessi erano inconfondibili: i romagnoli amavano un grigio chiaro, acciaiato o, meglio, con riflessi di alluminio. Di bruno, color ala di passero, vestivano in Abruzzo. Era il colore del fustagno. Poi si accecava per il bianco. Da Pescara in giù, pantaloni bianchi, che dalla macchina sembravano candidissimi: se ti fermavi erano color avorio, velati di sudore, bruciati dal ferro, macchiati dal pomodoro. Scarpe di tela bianca, appena si arrivava in vista dei paesi. La camicia alla Robespierre – con sudati ciuffi di pelo nello scollo – trionfava verso Napoli, col berretto alla gelatiera" [8].
"L'Abruzzo ci è venuto incontro nella persona di una donna che teneva per mano una bimbetta. Non era una donna molto vecchia: un enorme scialle nero le avviluppava interamente la magra figura ed essa, sedendosi, lo aprì con le braccia per trarselo sulla testa e parvero le ali di un mostruoso uccello notturno che si distendessero per il volo. Sedette sul ciglione della strada ma molto in alto e tacque per un pezzo guardandoci insospettita. Teneva però, strettissima nella sua, la mano della bambina e solo dopo un poco si decise a chiederci, timidamente, se i corridori facevano del male a nessuno. "A nessuno" garantimmo, "nemmeno ai propri concorrenti". La donna parve rassicurata e dopo un poco cominciò a parlare con la piccola. Non era facile capire quello che diceva, ma credetti intendere che le raccontasse la storia di suo padre che fu il primo in quella contrada a veder passare una bicicletta e corse al paese ad annunziarlo a tutti gli uomini; tenuto consulto e stabilito che un mostro cosiffatto non poteva essere altri che il lupo di Pretorio, si armarono di forconi e con essi vennero sulla strada per accogliere degnamente il malcapitato. Il quale, per sua fortuna, era già scomparso all'orizzonte. Ma questa favola la donna, più che alla sua giovane compagna, la raccontava a se stessa. (...) Nell'impervia e chiusa civiltà abruzzese le favole non sono monopolio dei bambini, come altrove. Esse sono il modo di sentire e di rappresentare anche dei grandi. Questa è la sola terra d'Italia dove i lupi circolino ancora per le strade dei villaggi, vestiti da uomini, e il serpente possa insinuarsi nei letti delle ragazze per sedurli. E le favole d'Abruzzo non sono soltanto in Abruzzo, ma dovunque sia un abruzzese" [9].
"Rivisondoli. A un lato della strada si legge su un cartello: Forza, Battista" [10]. "L’altopiano si spalanca quasi all’improvviso sulla strada che da Sulmona porta a Roccaraso. O viceversa. E’ come entrare, per un attimo, in un’altra dimensione, come trovarsi sulla prateria, lungo una delle mitiche Routes degli Stati Uniti. L’erba, le montagne, e il nastro d’asfalto che si srotola, piatto, davanti a me. Più che D’Annunzio o Silone, i loro romanzi, le loro storie, viene alla mente Jack Kerouac. On the road. Nove chilometri attorno a cui Carlo V decise di edificare cinque rifugi fortificati dopo che trecento fanti della Lega Veneta e cinquecento soldati del Principe d’Orange vi trovarono la morte a causa di una tormenta di neve. (…) L’odore dei tratturi, il profumo dei mostaccioli, della focaccia bianca, delle ferratelle, il sapore della salsiccia paesana e del pecorino gregoriano". [11]. "Quando una salita ti obbliga ad inarcare la schiena e buttare il volto sul manubrio, e ti fa dondolare come un batacchio di campana, di qua e di là, nella cadenza della pedalata che ti taglia il respiro; quando una discesa ti mette le ali ai piedi come una divinità pagana, e ti costringe a serrare ben forte le mani sulle due leve dei freni, lasciando dietro di te, nelle curve, una scia di ferodo bruciacchiato sul legno dei cerchioni, in un gioco azzardato e pericoloso di equilibrio affidato al precario contatto delle due gomme che hai gonfiato dure come il sasso; quando in pianura devi per forza arrancare per tener dietro alla ruota del compagno che ti precede perché sai che se ti distacchi naufraghi nel gruppo dei ritardatari, senza possibilità di rifarti con l’inseguimento; quando tutto questo accade tu non vedi che cosa sta alla destra ed alla sinistra della strada. I paesi sono solamente case messe in fila, la campagna non è che un gran cartone verde, la folla non è che una macchia scura, punteggiata da gridi d’entusiasmo. In corsa vedi ben poco, non vedi nemmeno la strada, forse, tanto sei preso dalla tua fatica, una fatica che non sai ancora se riuscirà a toccare la vittoria, o se resterà per sempre sconosciuta" [12].
note
[1] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 12 maggio 2009
[2] Velso Mucci, l'Unità, 21 maggio 1962
[3] Velso Mucci, l'Unità, 28 maggio 1962
[4] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 22 maggio 1997
[5] Mario Soldati, "Fuga in Italia", Mondadori, 1969
[6] Gianni Mura, la Repubblica, 22 ottobre 2000
[7] Gianni Mura, la Gazzetta dello sport, 27 maggio 1969
[8] Orio Vergani, Corriere della sera, 20 giugno 1946
[9] Indro Montanelli, Corriere della sera, 22 maggio 1948 (in "Indro al Giro", Rizzoli, 2016)
[10] Achille Campanile, Battista al Giro d’Italia, 1932
[11] Roberto Perrone, Manuale del viaggiatore goloso, Mondadori
[12] Enrico Emanuelli, la Gazzetta dello sport, 1937, citato in "Eroi, pirati e altre storie su due ruote", Bur

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