Sui calci d'angolo dei tedeschi, decidemmo di mettere due uomini sulla linea. Accanto ai pali. Tre volte ci siamo salvati così, respingendo la palla un attimo prima che fosse gol, altre due volte con un paio di parate mie su Buchwald e Littbarski, ma ci fece gol su rigore Matthaeus. Io da una parte e il pallone di là. Faceva caldo a Milano, quel giorno. Uscimmo dai Mondiali del '90 ai quarti di finale. Senza sapere che la Cecoslovacchia, dopo, non ci sarebbe stata più. Di fronte avevamo l'ultima Germania ovest, il muro di Berlino era caduto l'anno prima, la squadra della loro riunificazione sarebbe nata di lì a poco, mentre per noi sarebbe cominciato il processo opposto. L'est si sbriciolava, presto sarebbe toccato a Praga.
Ma quel giorno a Milano la rivoluzione di velluto non era neppure all'orizzonte. Bielik, Kocian, Chovanec, Moravcik, Fieber, Weiss, Kinier, Hýravý , Luhový , Griga, Palúch e il nostro ct Venglos erano i meridionali del gruppo, con una loro fierezza culturale, ma non ancora altro, non ancora politicamente slovacchi. Fu Vladimir Meciar, il leader del partito popolare, due anni dopo, a parlare per primo di profonde divergenze tra Bratislava e Praga, a respingere l'ipotesi di una confederazione, a non volere più Havel come presidente. Proprio loro, gli slovacchi, quelli che chiamavamo il sud parassita e sottosviluppato, 500 milioni di dollari di sussidio succhiati ogni anno alle casse del Paese, una regione dove ancora resisteva l'idea di un'economia comunista, proprio loro volevano staccarsi e andarsene. Solo Chovanec mi disse no, anche se ci separiamo io voglio restare ceco. E fu così.
I miei mi raccontavano sempre che nel 1968, quando avevo sei anni, Dubcek aveva ufficializzato la libertà di stampa venendo a parlarne nella nostra città, Brno, era aprile, primavera. I progressisti al governo avevano appoggiato la nuova legge alla ricerca del famoso socialismo dal volto umano, prima che i russi mandassero i loro carrarmati. Se non altro, nel '92 noi non ci siamo sparati addosso. Ognuno per la sua strada, serenamente. Quando la Slovacchia si staccò da Praga, io giocavo già in Inghilterra. Ero uno dei 13 stranieri con cui partiva la prima edizione della Premier League. Del Qpr non conoscevo molto. Certo, il nome, ma quando mi chiamarono per firmare il contratto non parlavo inglese. Neanche una parola. Un bel problema per un portiere come me, abituato a dare continue indicazioni ai difensori, spostati qua, avanza, prendi il nove, torna indietro. Don Howe, l'allenatore che mi aveva voluto a Londra, chiamò l'interprete che mi seguiva passo passo e gli scrisse qualcosa su un foglio. La prima era: goalkepeer's ball. Voleva che imparassi quella stringa di parole e che la usassi ogni volta che dalla mia porta uscivo con i pugni chiusi oppure in presa alta, era l'ordine che avrei dovuto lanciare ai miei compagni, scansatevi, la prendo io, goalkeeper's ball. La seconda, più semplice, era away. Significava: fate voi, buttate via quel maledetto pallone, io rimango al posto mio, tra i pali.
Ma non capivo e non riuscivo a farmi capire. Cominciai così a dovermi giocare il posto con Tony Roberts, un ragazzo gallese che in nazionale faceva la riserva a Southall. Senza offesa, ma io ero stato il titolare di una nazionale giunta ai quarti di finale di un Mondiale. Solo che i tifosi chiedevano la mia testa, per fortuna non capivo i loro insulti. Le cose cambiarono dopo una grande partita contro il Liverpool e un rigore parato contro il Sunderland. Chiudemmo al quinto posto, la migliore squadra di Londra di quel campionato. E in quello successivo parai un rigore all'ultimo minuto contro il Newcastle. Se chiedete ai tifosi del Qpr chi è stato il portiere migliore della loro storia, molti faranno il mio nome. Anche se sapevo appena dire hello e good morning. Non devi aver letto Shakespeare per parare un calcio di rigore, e alla fine alla gente importa quello.
Quando lasciai l'Inghilterra, casa mia era cambiata. Era la Repubblica ceca. Un Paese ormai diviso, ma almeno in pace, senza morti e macerie. Ho giocato nella mia vita per due squadre molto rivali, lo Sparta e lo Slavia, e sono stato amato dai tifosi di entrambe. Basta parlarsi, il velluto è la stoffa migliore per vestire le rivoluzioni.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Jan Stejskal sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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