È il 15 agosto visto da Gianni Di Gregorio, attore e sceneggiatore (“Gomorra”), il regista esordiente più premiato della scorsa stagione cinematografica con Pranzo di Ferragosto, film in cui Gianni è costretto dall’amministratore di condominio a ospitare in casa propria tre vecchiette, tre “mamme abbandonate”, nel giorno simbolo dell’estate. Delicatezza, ironia, cinismo. Dice Di Gregorio: «È il mio destino. Se non c’è la mamma da lasciarmi, mi affidano il cane da accudire, le piante da innaffiare».
Di Gregorio, anche stavolta le tocca lo stesso ferragosto?
«È un destino personale. Le figlie se ne vanno al mare, mia moglie raggiunge le amiche, io resto nel deserto di Roma a lavorare».
Però non sembra che le dispiaccia, giusto?
«Anzi. Ne ho proprio bisogno. Lo trovo bello. Già amavo malinconicamente il ferragosto, dopo il film per me è diventato una festa vera. Anche stavolta me ne voglio stare in giro a guardare il vuoto».
E nel deserto di Roma chi si incontra?
«Turisti. Turisti, e basta. Incontri questi poverini che si aggirano in una città fantasma, senza trovare l'ombra di nessuno. Ed è così in tutti i quartieri».
Il ferragosto di Roma è più ferragosto che nelle altre città?
«Forse sì. Milano, per esempio, si svuota regolarmente già ogni week-end. Tutti lavorano, e di sabato e domenica spariscono. Ora che ne parlo, mi viene voglia di andare a curiosare un po’ nei ferragosto degli altri. A Napoli, invece, immagino che la gente vada al mare».
Com’è l’esodo dei vacanzieri visto da chi rimane in città?
«Beato chi può. Fortunato chi riesce a permetterselo».
Ma lei non ha l’aria di chi farebbe a cambio, vero?
«Me ne sto da solo perché lavoro. Perché mi piace così. Però capisco anche la felicità fittizia di chi va da qualche parte affollata al mare, ad accalcarsi intorno a un buffet in un villaggio organizzato. Ogni tanto si deve. Ci sono passato…»
Qual è il pranzo perfetto per ferragosto?
«I fritti alla romana. Quelle cosine tipo fiori di zucca. Ma anche pesce. Rigorosamente fritto. Che devo cucinare io. E del vino».
La compagnia?
«Vorrei preparare una cena per la troupe del film, perché da allora non ho rivisto nessuno. Un’occasione per rincontrarsi. Per chi c’è».
E le vecchiette abbandonate?
«Spero si faccia sempre di più per loro. È una questione di civiltà. Un dovere etico. È stata una gioia verificare che grazie al film, in giro, si sia parlato del tema. Io stesso l’ho approfondito».
Scoprendo cosa?
«Col film ho girato l’Europa. Ho visto come funziona il fenomeno all’estero, e all’estero hanno capito come funziona da noi. Per esempio, nel nord Europa erano stupiti».
Stupiti?
«C’è una diversa impostazione. Hanno case di riposo organizzate dove gli anziani vanno spontaneamente, oppure ospizi dove si accompagnano le nonne. Noi siamo più passionali. E loro si stupivano che fosse possibile una situazione come quella del film».
Pranzo di ferragosto, l’anno dopo. Come sarebbe?
«Servirebbe una riflessione seria».
Ci sarà?
«Il sequel me l’hanno chiesto, certo. Ma mi fa paura. Ho detto no».
Insomma, mai più ferragosto nel suo cinema?
«Magari scriverò ancora qualcosa sul tema delle mamme. Sono nella fase in cui ricomincio a prendere appunti. Ascolto i discorsi delle persone intorno a me e prendo l’autobus per osservare».
Di Gregorio, anche stavolta le tocca lo stesso ferragosto?
«È un destino personale. Le figlie se ne vanno al mare, mia moglie raggiunge le amiche, io resto nel deserto di Roma a lavorare».
Però non sembra che le dispiaccia, giusto?
«Anzi. Ne ho proprio bisogno. Lo trovo bello. Già amavo malinconicamente il ferragosto, dopo il film per me è diventato una festa vera. Anche stavolta me ne voglio stare in giro a guardare il vuoto».
E nel deserto di Roma chi si incontra?
«Turisti. Turisti, e basta. Incontri questi poverini che si aggirano in una città fantasma, senza trovare l'ombra di nessuno. Ed è così in tutti i quartieri».
Il ferragosto di Roma è più ferragosto che nelle altre città?
«Forse sì. Milano, per esempio, si svuota regolarmente già ogni week-end. Tutti lavorano, e di sabato e domenica spariscono. Ora che ne parlo, mi viene voglia di andare a curiosare un po’ nei ferragosto degli altri. A Napoli, invece, immagino che la gente vada al mare».
Com’è l’esodo dei vacanzieri visto da chi rimane in città?
«Beato chi può. Fortunato chi riesce a permetterselo».
Ma lei non ha l’aria di chi farebbe a cambio, vero?
«Me ne sto da solo perché lavoro. Perché mi piace così. Però capisco anche la felicità fittizia di chi va da qualche parte affollata al mare, ad accalcarsi intorno a un buffet in un villaggio organizzato. Ogni tanto si deve. Ci sono passato…»
Qual è il pranzo perfetto per ferragosto?
«I fritti alla romana. Quelle cosine tipo fiori di zucca. Ma anche pesce. Rigorosamente fritto. Che devo cucinare io. E del vino».
La compagnia?
«Vorrei preparare una cena per la troupe del film, perché da allora non ho rivisto nessuno. Un’occasione per rincontrarsi. Per chi c’è».
E le vecchiette abbandonate?
«Spero si faccia sempre di più per loro. È una questione di civiltà. Un dovere etico. È stata una gioia verificare che grazie al film, in giro, si sia parlato del tema. Io stesso l’ho approfondito».
Scoprendo cosa?
«Col film ho girato l’Europa. Ho visto come funziona il fenomeno all’estero, e all’estero hanno capito come funziona da noi. Per esempio, nel nord Europa erano stupiti».
Stupiti?
«C’è una diversa impostazione. Hanno case di riposo organizzate dove gli anziani vanno spontaneamente, oppure ospizi dove si accompagnano le nonne. Noi siamo più passionali. E loro si stupivano che fosse possibile una situazione come quella del film».
Pranzo di ferragosto, l’anno dopo. Come sarebbe?
«Servirebbe una riflessione seria».
Ci sarà?
«Il sequel me l’hanno chiesto, certo. Ma mi fa paura. Ho detto no».
Insomma, mai più ferragosto nel suo cinema?
«Magari scriverò ancora qualcosa sul tema delle mamme. Sono nella fase in cui ricomincio a prendere appunti. Ascolto i discorsi delle persone intorno a me e prendo l’autobus per osservare».
(Il Venerdì, 14 agosto 2009)
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