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Un selfie della nazionale belga |
Che cos’è una squadra di calcio nel 2014. Bella questione. Se n’è occupato
Francesco Costa, nel suo blog su Il Post, dopo una visita a Trigoria per la presentazione del nuovo media center della Roma. È venuta fuori un’interessante riflessione su "quanto è difficile fare il calcio adesso, se le squadre per avere successo devono diventare — anche! — cose che un tempo avremmo chiamato editori".
Siamo effettivamente di fronte a una mutazione genetica, un cambiamento dei codici di comunicazione e di fruizione in uno sport che "non è mai stato così complicato da fare e divertente da vedere". Mi hanno soprattutto colpito i passaggi dedicati a ciò che viene chiamato "il romanticismo del pane e salame" e "la patologica e decadente diffusione del pensiero nostalgico", insomma una certa connotazione negativa di ciò che arriva dal passato, "un calcio elitario, a disposizione di pochi, dei benestanti e dei giornalisti" (riferimento agli anni ‘40-’70), un calcio che non si vedeva, mentre adesso c’è modo di "guardare in diretta l’allenamento di rifinitura mentre sei seduto sul tram".
Ora, essendo un accanito fruitore del calcio nelle sue forme contemporanee e digitali (live, highlights, tweet, selfie, official site, blog, fanzine), ma pure un vecchio iscritto al sindacato per la tutela dei diritti del pane e salame, nonché ex ventenne degli anni ‘80, mi sono domandato se e cosa mi può mancare di quel calcio lì. Del calcio analogico. A parte i miei vent’anni. E a parte i campioni dell’epoca: Falcao, Maradona,
Platini, Rummenigge, Van Basten, Zico (e già non è poco). Mi sono chiesto cosa nell'Eden di oggi può mancarci di quella fruizione antica. Dinanzi alla possibilità attuale di vedere qualunque partita in qualunque momento, impallidisce il bambino che al massimo poteva venire a conoscenza dal Guerin Sportivo dell’esistenza di un calciatore che si chiamava
Keegan, si diceva fosse fortissimo, immarcabile. Un limite, sia detto per inciso, che non ci vietava di avere fantasie, sogni (anzi), perfino certezze indimostrabili e inattaccabili, sulle quali però spesso si sorvola, tant’è vero che l’antecedente
Pelé ancora lo diciamo (lo dite) il migliore di tutti i tempi. Ma comunque.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che sia molto più divertente e appagante assistere oggi in diretta al gol da lontano di
Stoppelkamp del Paderborn, e misurarlo, sapere che ha tirato da 82 metri. Non ci basta. È meraviglioso, mentre lo guardiamo, condividere lo stupore, l’emozione, lo screenshot, la battuta spiritosa, i 6 secondi che qualcuno da qualche parte nel mondo ha messo su Vine. Ed è meraviglioso e utile per chi con il calcio ci lavora essere informati del fatto che
Firmino dell’Hoffenheim calcia in porta 3,5 volte a partita, e finanche saperlo durante la partita, mentre la stai guardando.
Eppure. Eppure qualcosa manca. Il paradosso è che il calcio dei media center - per usare una formula - si è arroccato, si è isolato, si è chiuso in se stesso. Non è
ANCHE quello di cui parla Costa, è
SOLO quello di cui parla Costa.
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foto tratta dall'account Twitter @MaradonaPICS |
La questione allora si trasforma in: cos’è (diventata) una squadra di calcio nel 2014. È diventata una squadra con stadi vuoti, i più vuoti di sempre, mentre aumentano i suoi followers e i suoi contatti su Facebook. Se un tempo si faceva fatica a trovare un biglietto, adesso si fa fatica a comprarlo: è improbabile riuscire a passare un tornello con un tappo su una bottiglia, l’unica possibilità è camuffarlo da petardo. Una squadra di calcio nel 2014 è sicuramente una media company che cerca moderne forme di finanziamento, ridisegna i colori delle sue maglie (niente scandali, alcune sono anche belle), ma resta fieramente barricata dietro i suoi cancelli. Trent’anni fa il Paese dei balocchi era il campo, ed era aperto. Non vedevi Borussia-Arsenal, ma vedevi tutto quello che era a tua disposizione. Oggi no. Mentre cresce la quantità di ciò che viene mostrato, si riduce il margine di libertà con cui guardare. Ci sono più informazioni ma c'è anche più distanza. Il calcio ci fa vedere tutto, vero, ma da molto più lontano. È più facile guardare un giocatore delle nostre squadre dal Giappone (ogni domenica a mezzogiorno) che dal vivo a
Milanello. Ed è impressionante il fatto che un ex calciatore come Daniele
Adani alla possibilità di un ritorno in campo abbia preferito il lavoro in tv. Lo trovo molto moderno, moderno e terribile. Persino chi sul campo c’è stato da protagonista oggi pensa che il meglio non passa più da lì.
Nella Trigoria dell’epoca non c’era il media center, ma
Falcao sì. Là. A due passi da te. Più il calcio aggiunge canali di comunicazione, più sottrae argomenti. Puoi sapere che una squadra ha corso meno chilometri di un’altra, ma non potrai più capire perché. Gli allenamenti sono blindati. Non solo quelli di rifinitura. Tutti. Non c’entra la disintermediazione. Non si vedono dal vivo, né sul canale tematico, né sul telefonino viaggiando in tram. I calciatori in allenamento non si vedono più e basta. Ovunque. Tutto si dice di Leighton
Baines dell’Everton, più niente del lavoro sul campo. Dire, questo è il verbo. Dire e non sapere. Per il calcio del 2014 meno si sa, meglio è. Meno racconti più sei povero. E sorvolo qui sull’aspetto che più direttamente riguarda il lavoro dei giornali, con i rapporti contingentati, le interviste programmate, i club che decidono con chi si parla, quando e quanto, e se per caso hai fatto un titolo che non è piaciuto le interviste te le puoi scordare, anche per un anno intero. A forza di vivere in
un mondo a parte, il calcio s’è inaridito, trasformando il suo rapporto con noi in una relazione virtuale. A Soccavo, sempre trent’anni fa, aprivano il cancello e dietro non c’era il media center ma ci trovavi
Maradona, lo vedevi palleggiare con un’arancia o una bottiglia di acqua minerale, magari tornavi pure a casa con l’autografo. Forse è nostalgia, può darsi, ma non tutto il nuovo è in grado da solo di generare bellezza. Non si smette di apprezzare Proust perché il self-publishing è un’opportunità in più.
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