LE VELE di Scampia erano un sogno. Erano un'illusione di sviluppo per l'area est di Napoli, un'utopia. Quando l'architetto Franz Di Salvo le concepì oltre il vecchio quartiere di Secondigliano, pensava a Le Corbusier e a Kenzo Tange. Sono diventate il simbolo del degrado, delle faide di camorra e dello spaccio. Da abbattere, scrisse Giorgio Bocca. Tre sono andate giù, quattro resistono come immagine plastica del contrasto tra l'inferno urbano e l'impegno di molti per il risanamento morale. È qui che esercita il suo fascino da educatore e da maestro di judo Gianni Maddaloni, papà di Pino, medaglia d'oro ai Giochi di Sydney nel 2000. È qui che è cresciuta sua figlia Laura, a sua volta campionessa, poi compagna nella vita di Clemente Russo, casertano di Marcianise, pugile due volte d'argento alle Olimpiadi. Il famoso "Tatanka".
Due libri adesso raccontano le loro traiettorie, l'impegno contro i mostri da cui sono stati circondati in quei luoghi che nell'immaginario sono diventati in questi anni Gomorra e Terra dei Fuochi.
Hanno due facce simili, Maddaloni e Russo, scavate e grinzose, potrebbero dirsi da cinema pasoliniano. Lo stesso sguardo accigliato, la stessa rabbia in fondo mai placata. Gianni Maddaloni ("L'oro di Scampia", con Marco Caiazzo, Baldini & Castoldi) rievoca storie di ragazzi salvati dalla sua palestra, altri perduti, le bollette da pagare, le istituzioni da inseguire e gli usurai che volteggiano, uomini che dal carcere gli scrivono chiedendogli di tenere i loro ragazzi lontani dai guadagni facili, che i guadagni facili a Scampia vogliono dire solo una cosa. Maddaloni racconta senza nascondere la sua delusione i giorni superati dei contrasti con Pino, allenatore della nazionale: una storia di cinture nere soffiate al quartiere. «Ha ottenuto quel riscatto sociale che tanto auspicava, eppure da lui tutta Scampia si sarebbe aspettata qualcosa di diverso. Che non ci abbandonasse. Ha scelto di non sacrificarsi e di puntare su se stesso». Clemente Russo ("Non abbiate paura di me", con Boris Sollazzo, Fandango) nel suo libro chiama Gianni un secondo padre, lui che viene da una famiglia in cui «se andavo male a scuola davano ragione ai professori. Se mi lamentavo dell'allenatore, mi dicevano che ero io a sbagliare». Un'intervista a Roberto Saviano fa da prologo al libro e in fondo da filo rosso per le due vicende: «Restare e combattere per vedere i propri meriti e il proprio talento riconosciuto, quando ti va bene, a metà? O andar via e giocarsela? Non so davvero cosa consigliare».
(la Repubblica, 26 novembre 2014)
Nessun commento:
Posta un commento