Sarà per questo che nei sei film di Marcoaldi sono riprese sempre in primo piano le mani, indaffarate, in movimento, immerse in un progetto. Quelle della pittrice Giosetta Fioroni che si impastano del colore verde. Quelle di Renzo Piano che tradiscono la stessa gioia ludica di sempre, si direbbe quasi infantile, nel dedicarsi ai modellini delle sue opere. Oppure Altan che con la matita e poi al computer dà vita a uno dei suoi Cipputi. Ma anche mani riprese nel loro privato: Toni Servillo che prepara il caffè nella casa di Caserta confessando che da ragazzo sognava di essere un direttore d’orchestra (le mani, ancora); Eugenio Scalfari che suona note jazz seduto al suo Schimmel bianco verticale e poi racconta che i titoli migliori sono quelli che cantano, “gli ottonari sdruccioli” per esempio. Perché il tratto comune a tutti gli incontri è quest’attenzione assoluta per la parola, a teatro come in un laboratorio di architettura, una cura esclusiva per quello che Marcoaldi alla fine chiama “un linguaggio molto semplice, ma portatore di una robustezza di pensiero”.
Sono sei piccoli film in cui si viaggia in bici o in lambretta, molto si passeggia e tanto si rivela. La figlia di Renzo Piano racconta l’amore del padre per le barche, quella sorta di iniziazione che tocca agli amici, ai fidanzati, perfino ai neonati di famiglia, le cui culle venivano legate e fissate per poter comunque andare di bolina. Ciascun protagonista di un documentario ha un suo narratore aggiunto. Peppe Servillo canticchia la canzone che scrisse e dedicò a suo fratello. Stefano Benni omaggia la laconicità di Altan, che “con 10 parole riesce a dire ciò che io metterei in un corsivo da 80 righe”. Raffaele La Capria, nel suo studio, racconta commosso di una lettera custodita nel suo portafogli, scrittagli da Goffredo Parise, compagno di una vita di Giosetta Fioroni: “Scrivi del tuo doloroso capire tutte le cose”. Francesco Merlo definisce Scalfari “un grande moscone”. E poi l’incontro fra il vignaiolo Beppe Rinaldi e Carlo Petrini, che rivendica la sua natura e la sua azione da utopista, il suo “essere Don Chisciotte e Sancho Panza insieme”, perché “una politica senza utopia e senza poesia non è politica”. È la Grand’Italia che giudica “la bellezza del sapere un piacere fisico” (Piano), che ha memoria ma non s’affloscia sui ricordi, anzi, parla del presente come di un’idea magnifica (Fioroni) e che individua nel teatro “una barriera alla barbarie da cui siamo oppressi” (Servillo). Una Grand’Italia che sa guardare avanti senza rottamare. Con tenerezza Altan racconta come possano convivere dentro di sé due personalità, il papà della Pimpa e l’autore satirico: “Uno racconta la realtà com’è, l’altro come vorrebbe che fosse. Il segreto di questo lavoro è stare attenti: vedo gente che lavora al computer, in treno, io non ne sarei capace”. Un’attenzione che diventa totale coinvolgimento (“se sei fesso si chiama perfezionismo”), tensione estrema, fino alla cecità, quella che Piano confessa di aver vissuto quando costruì la sua prima barca, in compensato, così acceso di entusiasmo da “arrivare a dimenticare che era troppo larga e non sarebbe uscita dal garage”. E sono sempre sue le bellissime parole su cosa significhi nascere in una città di mare, una non-radice, un’origine che ti spinge a partire, andare, scoprire, conoscere, vedere, galleggiare, “muoversi anche controvento”, per poi “passare la vita a tornare a casa, dove il ritmo ti appartiene e la luce è quella giusta”.
La nostalgia verrà fuori solo nel ricordo della televisione di una volta, la tv che voleva unire il Paese e parlargli. Altan rimpiange addirittura i giorni in cui esisteva un canale solo, perché – nel suo paradosso – “la mattina dopo tutti parlavano delle stessa cosa, e ci si confrontava, ci si legava”. Oggi, invece, “oggi – s’infiamma Servillo – ci sono canali tematici su tutte le stronzate del mondo, magari un giorno ne uscirà uno sulle asole, su come si mettono i bottoni”. Tanto Grand’Italia resiste. Una nuova serie è già in cantiere.
(Il Venerdì, 21 novembre 2014)
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