lunedì 14 settembre 2009

Martone, il dottore del rugby

TRENTADUE anni spesi a inseguire una palla storta. «Giocavamo al macello, dove ora ci sono quei grattacieli...». Quei grattacieli, il Centro direzionale. «Oppure dove c' era l'Inam...». A piazza Nazionale. «E al campo dell'Ilva di Bagnoli? Diamine, solo dei pazzi potevano pensare di giocare lì. Si sputava nero dopo ogni allenamento.E al Vomero, certo». È la mappa di Napoli attraverso la lente del rugby e dei ricordi, così come la racconta Marcello Martone, oggi ottantenne, due scudetti vinti nel '65 e nel '66 con la Partenope, un piccolo grande miracolo nella storia dello sport cittadino. Martone era il piedino d'oro della squadra, quello che calciava i drop, unico rugbista sull'album Panini "I campioni dello sport ' 66/67", figurina numero 397, dopo Don Fullmer e prima di Nicola Pietrangeli. Aveva cominciato che non era ancora maggiorenne, ha smesso che di anni ne aveva cinquanta. Come nel calcio è riuscito solo a sir Stanley Matthews, l'ala destra della nazionale inglese a cui un giorno chiesero: «Hai 32 anni, pensi di riuscire a giocare altri due campionati?». Altro che due. Nelle gambe gliene avanzavano altri 18.


Pure sir Marcello Martone se l'è sentita di arrivare fino a 50, e avrebbe anche proseguito, se un giorno non l'avessero costretto a fermarsi. È stato suo fratello Mario. «Nel frattempo era diventato presidente della Federazione. Fu lui a introdurre il limite d'età per i giocatori italiani. Così mi obbligò a riconsegnare il tesserino di affiliazione». Posa la palla, Marcello, e scegliti un altro giocattolo. «Adesso mi tengo in forma con il tennis». Durante la guerra, a rugby fermo, Martone s'era dato al calcio. «Serie C. La Turris». Ma la palla storta, quella, era un'altra cosa. «La federazione mandava i dirigenti a osservare i tornei scolastici e a selezionare i migliori giocatori. Gli istituti che si sfidavano erano il Vittorio Emanuele, il Genovesi, il Mercalli, il Garibaldi, il Vico, l'Umberto. In precedenza, il fascismo aveva messo in piedi una squadra della Gioventù italiana. Avevamo per allenatore un francese, un certo Radicini. Una bella capa gloriosa. Una volta lo arrestarono con l'accusa di vendere roba falsa...».

La Partenope, che nel '51 era nata come polisportiva, si lanciò nell'avventura rugby l'anno dopo, prendendo un posto in serie B. «Io giocavo per amicizia e per divertirmi. Quando chiedevo se c'erano soldi, mi rispondevano: ma perché, lei ne ha bisogno?». Martone no. A portare i guadagni in casa era la medicina, la sua seconda vita. La prima era il rugby. In campo lo chiamavano 'o duttore. «Studiavo dalle dieci di sera alle tre di notte. Mio padre era notaio. Inflessibile. Veniva a svegliarmi alle sette del mattino perché non saltassi le lezioni. Quando mi sono sposato, gli scontri sono cominciati con mio suocero: proprio non mandava giù l'idea che io lasciassi casa, restando fuori la notte per andare in trasferta con la squadra. Ogni volta che rientravo a Napoli dopo la partita, per cinque o sei giorni non mi rivolgeva la parola». Medico analista, Martone. «Si partiva in macchina al sabato, si dormiva, si giocava, si rientrava. Il lunedì mattina ero in laboratorio». La sua storia è quella di una squadra intera. Augeri era avvocato, Gelormini commercialista, Rodà magistrato, Scatola veterinario. «Tutti sportivi dilettanti. Il più grande atleta con cui io abbia mai giocato è stato Paolo Rosi, che poi diventò telecronista di boxe e atletica in Rai». Si disse che era nata una scuola rugbistica napoletana. «Il nostro segreto era la fantasia, non potevamo permetterci di metterla sul piano fisico contro i babbasoni del Nord. Andavamo via di velocità. Di leggerezza. Il più alto di noi era 1 e 72. Sulle touche il segreto era far prendere la palla sempre agli avversari, più alti e più grossi, senza nemmeno provare a contrastarli, e poi subito dopo andavamo a placcarli».

Due scudetti vinti così. Potevano essere di più. «Il secondo titolo ci spaccò. La Partenope non aveva più una lira per noi, il basket assorbiva tutti gli investimenti con gli stranieri, compravano gli americani e toglievano soldi al rugby». Diventò un caso nazionale. Il quotidiano "Roma" lanciò una donazione, Enzo Tortora invitò la squadra in tv alla Domenica Sportiva, fu lanciato un appello al comandante Lauro. «Zanussi mandò un assegno da un milione, Cinzano ci ricevette sul grattacielo a Milano. Non chiedevamo soldi per noi, bastavano quelli per coprire le spese delle trasferte». Stava finendo tutto, 1966. «Arrivò Borghi con il suo marchio. L'Ignis. Io,a nome della squadra, gli chiesi di darci un lavoro anziché prometterci stipendi per giocare. Lui offrì di mettere la scritta Ignis sulla maglia. Ce ne andammo in sette. Gli dissi: con una scritta sul petto non giocherò né ora né mai». Il rugby, alla Partenope, chiuse bottega cinque anni dopo lo scudetto. «Ho continuato con il Cus, con l'Enel, poi nell'Esercito. Non ho mai saltato una partita in serie A. I calci piazzati, nelle mie squadre, li tiravo sempre io. In 32 anni ne avrò realizzati più di 1.100». Come i gol di Pelè. Il rammarico di Martone ha il colore azzurro. La Nazionale. «Sono stato convocato due volte. La prima quand'avevo 17 anni, per giocare contro la giovanile della Germania; la seconda quando ormai ne avevo 47 per una partita con il Marocco. Senza giocare, però». Il capitano dei 1.100 calci fino a cinquant'anni, in vita sua non è mai stato su un campo a vedere una partita di rugby. «Non mi piace veder giocare gli altri. Una volta mi hanno regalato dei biglietti per andare al Sei Nazioni, non ci sono andato. Le guardo in tv, le partite, oggi te ne fai una pancia così, mamma mia, ma è un altro mondo...». Qualche eccezione comincia a farla adesso. Il motivo si chiama Fabrizio, il figlio adolescente di sua figlia Giuditta. Comincia a giocare a rugby. «Lui, sì, vado a vederlo. Ma sto zitto. Nessun consiglio. Altrimenti va a finire che scopro che già sanno tutto».

(la Repubblica, 13 settembre 2009)

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