martedì 14 luglio 2015

Messi lo svedese

tup Io ero il genio, il talento, la fantasia. Io ero il mago, la pulce, il prodigio. Io ero l’ingegno, l’estro, il fenomeno. Io ero il capriccio, il miracolo, il sogno. Io ero l’Erede. Ora non più. Ora per tutti sono un pecho frío. Un cuore freddo. Sono senz’anima.
Adesso sono uno che camminava per il campo. Sono l’indolente, lo svogliato, il pigro. Sono il fannullone, il viziato, l’oltraggio al popolo. Sono l’inerte, l’apatico, l’ignavo dello Stato. Sono quello che non canta l’inno. Sono il disertore, il renitente, sono contumace. Se l’Argentina vince, l’Argentina non è solo Messi. Se l’Argentina perde, io sono la bandiera del disastro. Il calcio non ha equilibrio. O sono iddio o sono il diavolo. La passione è una condanna. Questa maglia è una condanna. Spunta sempre qualcuno con il dito alzato, a rimproverarmi per non aver segnato neppure uno dei sei gol fatti al Paraguay. A Carlos Reutemann dicevano che non rischiava, che era prudente, aveva paura. Ma se hai paura non ti chiama la Ferrari, non arrivi 45 volte fra i primi tre in un gran premio di Formula uno, e non ne vinci dodici. La verità è che a Reutemann rimproveravano di non essere Fangio. E di Juan Del Potro non dicono forse che gli manchi il fuoco dentro? Eppure, se dentro il fuoco non ce l’hai, non vinci diciotto tornei, tra cui di fila i primi quattro che ti capita di giocare; non diventi il quarto tennista del mondo nell’era in cui ci sono Djokovic Federer e Nadal, non batti Federer in una finale di New York. Anche per lui, uguale, gli rimproverano di non essere Vilas. L'Argentina è la terra dove le cose migliori sono già passate. Ora l’ha detto anche Diego. Il Mito. L’Eroe. Il Totem. Dice che vado trattato come gli altri. Ma Diego sbaglia. Sbaglia perché crede ch’io voglia essere speciale. Mi confonde con se stesso. Quello che Diego chiede al mondo, al mondo lo sto chiedendo anch’io. Essere considerato uguale agli altri, essere uno degli undici. Come dice Menotti, una sinfonia non si fa solo con un bel pianoforte. Servono i violini e i fiati. Ma il calcio è perverso. Ho vinto la Liga, la Coppa, la Champions. Potevo andare al mare con Antonella e con il bimbo. Iniesta è al mare. Busquets è al mare. Piqué è al mare. Suarez è al mare. Io invece sono venuto a giocare la Coppa America. Per sentirmi dare dello svedese. Immagino che per Diego sia un insulto. Ha frullato un luogo comune e me l’ha tirato addosso. Non sa che gli svedesi io li ho conosciuti. Li ho visti sparire dal campo nelle sere che contano, come capita a tutti. Agli italiani, agli spagnoli, agli inglesi. Ma li ho visti anche combattere, sputare e friggere: come capita a tutti. Sempre che sudore e impeto siano davvero indispensabili a un trionfo, o non siano forse la sua scenografia più facile. La fatica è una narrazione. Una delle tante possibili. Ho visto svedesi vincere senza scomporsi il ciuffo di un capello. Davano l’impressione di poter ricominciare a giocare un’altra partita dopo averne appena dominata una. L’aggressività è solo un titolo che paga dividendi. Se non avessi giocato alla Messi, non avremmo passato il girone al Mondiale. Se non avessi giocato alla Messi, per il Mondiale neppure ci saremmo qualificati. Io, il pecho frío. Il pecho frío a undici anni aveva imparato a farsi le iniezioni da solo, il dolore della siringa certe sere lo sento ancora. Non si può essere un coniglio bagnato se da bambino ti ficchi un ago grosso così sotto la pelle perché speri di diventare grande, di non restare incastrato dentro un corpo che comincia a starti stretto. Il pecho frío a undici anni è partito per l’altra parte del mondo, l’Europa, mettendosi sulle spalle il peso e il futuro della famiglia intera. Il pecho frío un giorno ha detto no grazie mi dispiace alla Spagna e alla sua maglia, al Paese che gli aveva dato tutto, la salute, la gloria, il denaro. Il pecho frío ha scelto di rappresentare la terra che non gli ha dato niente, accettando di giocare ogni partita da quindici anni sotto una cappa, l'ombra pesante del miglior giocatore della storia sopra la testa. L’Argentina pretende da me la perfezione, l’infallibilità, l’eccellenza. L’Argentina pretende da un suo piccolo figlio tutto quello che da se stessa non esige. Non è Leo Messi che volete vedere in campo. Voi volete l’impossibile, volete il Messi con cui giocate alla playstation, voi volete una finzione. Sognate di riportare in vita un ricordo, un pezzo della vostra memoria parziale, quella che oggi dimentica i giorni in cui finanche a Maradona rinfacciavate le stesse cose: bravino, sì, ma cos’ha vinto? Trattatemi come gli altri, allora, vi scongiuro. E se non volete ascoltare me, ascoltate il vostro Diego.  

(Come per la serie dedicata ai portieri, le parole attribuite a Leo Messi sono una libera interpretazione ispirata dagli articoli pubblicati in Argentina in questi giorni)

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