Forse il vero potere di Silvan sta nella sua capacità di congelare il tempo. Come ha scritto Sorrentino («A Paolo ho predetto l'Oscar») non si capisce quanti anni abbia, possono essere un attimo trenta e poco dopo centotrenta. Nel giro di due ore e mezza, disquisendo di egizi come di Harry Potter, legge nella mente di chi gli sta di fronte un numero da 1 a 100 e una parola pescata a caso da un libro chiuso, tira fuori un 9 di quadri dalla giacca blu portata su una camicia bianca dalle maniche sbottonate, trasforma una moneta da due euro in una conchiglia e ricompone una carta che poco prima aveva smolecolato. «Un giorno arriva mio figlio e mi fa: pensa a una donna che hai conosciuto. Okay. Dimmi il suo campo. Okay. Dimmi in che periodo. Okay. Dimmi il suo Paese. Okay. Ticchetta sul cellulare e risponde: Juliette Greco. Giusto. Ma questa è tecnologia, non magia. YouTube è pieno di prestigiatori cibernetici, che propinano illusioni impossibili, create ad hoc in post-produzione. Un bluff che non risponde alla realtà oggettiva. Io ho un telefonino che costa 24 euro. Dicevamo?».
I suoi racconti sono corsi d'acqua che attraversano doline. Ora stanno qui, tra un po' sbucano da un'altra parte. Da un lato c'è Aldo Savoldello, radici nobili, figlio del capo della polizia lagunare di Venezia, noto anche per aver vinto un concorso come sosia di Rodolfo Valentino. «Mi chiamo Aldo perché un tempo erano questi i nomi che si davano ai bambini». Dall'altro c'è il mago Silvan, che negli anni ‘70 invase il mercato dei giocattoli con le scatole dei suoi trucchi e prestò la sua faccia alle foderine dei quaderni Pigna: 76 programmi tv in prima serata, 250mila foto autografate in due giorni ai bambini che seguivano la sua rubrica su Topolino. «Il mio nome d'arte è un omaggio a Silvana Pampanini. Ho due personalità che non si sovrappongono: si sintetizzano. Io non faccio il mago, io sono un mago, ventiquattro ore al giorno, com'è sempre se stesso un otorinolaringoiatra, un prete, un chirurgo». Silvan è un corpo che ha sempre una platea. Non solo nello spettacolo La grande magia, in tour con la regia del figlio Stefano. Il tono della voce, la postura, le mani: sempre uguali. L'eleganza. «Non ho messo un jeans in tutta la vita». Silvan non è mai sul tasto off. «Mi alleno tre ore al giorno. Lego alle dita i piccoli pesi da bilancia che usava mia madre. Guardi qui». Scopre l'avambraccio e il muscolo flessore. «Mi serve in forma, per reggere un oggetto nascosto nel palmo. Questo atteggiamento affabulatorio è parte della mia natura. I preliminari creano l'attesa. Come nell'amore». E insomma pare di capire, tra le pieghe delle sue omissioni, che questa storia della magia con le donne funzioni. «È il personaggio che affascina. Ho avuto un debole per il fascino femminile. Mia moglie era molto gelosa ». Bisbiglia. «Lo è tuttora». Figlia di un noto ingegnere inglese, la signora Irene crollò dinanzi all'illusionista. «Era diplomata alla scuola di Belle arti di Saint Martins, allestiva vetrine a Londra per Marks and Spencer. La conobbi mentre vendeva oggetti d'antiquariato per beneficenza. Di una bellezza folgorante. Come oggi. Portava un gibus su un vassoio. Venne al tavolino e le feci spuntare dal cilindro una rosa. Suo padre, un ex ufficiale dell'esercito di stanza in India, era contrario: gli italiani, sosteneva, sono tutti playboy».
Nella sua casa romana al Gianicolo, Silvan custodisce quattromilacinquecento libri. «Da bambino mi nutrivo dei fumetti di Mandrake». Poi s'è messo a studiare le vite di chi in quest'arte è venuto prima di lui. Tutto è cominciato in una pizzeria di Crespano sul Grappa, la sera in cui mettevano in palio per una lotteria un maialino vivo. «Avevo sette anni. Su una pedana salì un signore in marsina, un bel ventre pronunciato, un meridionale. Mi chiamò e riempì le mie mani a secchiello con dieci monete, poi ne infilò tre in tasca e promise di farle riapparire con le altre. Strinsi forte le mani e quando mi disse di riaprirle iniziai a contarle. Arrivato a cinque, già mi accorsi che erano aumentate. La notte non dormii. Quell'uomo mi aveva trasmesso il bacillus magicus. Com'era accaduto? Giravo per bancarelle, compravo libri sulla magia, me ne smerciavano anche sull'occultismo, la teosofia. Una volta ne presi uno perché in copertina c'era un tipo vestito da mago. Ma era Petrolini. Ce l'ho ancora». Gli scaffali, lo studio, il suo rifugio. Si accede attraverso una scala a chiocciola in legno. Una caverna di tesori. Un ritratto di Milo Manara. Un regalo di papa Giovanni. Un teschio di nome Occultus a cui i nipotini vanno a dare il buongiorno. «A nove anni tentai un esperimento. Il figlio del farmacista Colussi mi procurò del solfato di sodio e del cloruro mercurico. Secondo i miei libri, quell'intruglio avrebbe fatto apparire degli scheletri. Non vedevo l'ora. Ma avvicinai il volto alla pentola e mi bruciai le ciglia». Aldo, non ancora Silvan, finì trascinato da suo padre a San Servolo, l'isola dei matti. «Mi fece visitare dal professor Cappelletti, uno psichiatra». Al quale Aldo, ormai già quasi Silvan, fece tagliare in due una cordicella di spago per poi restituirgliela integra, dopo averla masticata. Responso del luminare: «Il ragazzo è in gamba».
E allora che la magia si compia. Questo vuol dire, per Silvan il suo celebre Sim Sala Bim. «All'inizio adoperavo un'altra formula. Dicevo: "Tac tac c'è rumba yama cler". Sim Sala Bim è più orecchiabile: viene dal ritornello di una canzoncina danese». Ha fatto sparire una chiave dalle mani di Orson Welles. «Avevo dieci anni e lui stava girando a Venezia. Dopo trent'anni seppi che mi guardava in tv». Ha fatto muovere il tappeto volante della leggenda nella casa in Tunisia, sotto gli occhi di Keith Carradine e Harvey Keitel durante le riprese del film L'inchiest a. «Lo toccai con il ginocchio mentre distraevo tutti con una monetina». Aneddoti raccolti nella sua autobiografia, La magia della vita (Mondadori). «A Fregene è esaurita», dice, forse ironico, forse no. Silvan è una scatola dentro cui non si deve guardare. Del resto, la distrazione altrui è la sua fortuna. Nella tv d'oggi un suo show farebbe un figurone. «Forse ho scelto questa strada per spingere i ragazzi a dire: da grande voglio fare il mago. Quando ho cominciato in Italia eravamo quattordici. Adesso siamo tremila e cinquecento. Non mi sono pentito. Mai. Se non avessi fatto il mago, forse avrei progettato uno yacht innovativo. Ho dedicato la mia vita a cercare la magia vera. Non esiste. È una gabula. Esiste solo come camuffamento realizzato dall'illusionista attraverso lo studio, la fantasia, la creatività... Ma ho fede. Credo che Dio esista. E credo nella reincarnazione. Oso pensare che un tempo sono stato Giuseppe Pinetti di Orbetello, illusionista del ‘700: girava su un carro trainato da quattro cavalli bianchi». E guarda fisso, dritto, sempre calato nella parte di uno che sta per incantarti. Chissà cosa davvero pensa di noi, di noi ingenui che ogni volta ci caschiamo. «Tutto il bene possibile. Sono io che uso dei trucchi. Voi siete onesti. Ho portato la dignità e la cultura in una figura che veniva collegata al Sik-Sik di Eduardo. Ma un mago non imbroglia. Casomai stupisce turlupinando».
(la Repubblica, 5 luglio 2015)
I suoi racconti sono corsi d'acqua che attraversano doline. Ora stanno qui, tra un po' sbucano da un'altra parte. Da un lato c'è Aldo Savoldello, radici nobili, figlio del capo della polizia lagunare di Venezia, noto anche per aver vinto un concorso come sosia di Rodolfo Valentino. «Mi chiamo Aldo perché un tempo erano questi i nomi che si davano ai bambini». Dall'altro c'è il mago Silvan, che negli anni ‘70 invase il mercato dei giocattoli con le scatole dei suoi trucchi e prestò la sua faccia alle foderine dei quaderni Pigna: 76 programmi tv in prima serata, 250mila foto autografate in due giorni ai bambini che seguivano la sua rubrica su Topolino. «Il mio nome d'arte è un omaggio a Silvana Pampanini. Ho due personalità che non si sovrappongono: si sintetizzano. Io non faccio il mago, io sono un mago, ventiquattro ore al giorno, com'è sempre se stesso un otorinolaringoiatra, un prete, un chirurgo». Silvan è un corpo che ha sempre una platea. Non solo nello spettacolo La grande magia, in tour con la regia del figlio Stefano. Il tono della voce, la postura, le mani: sempre uguali. L'eleganza. «Non ho messo un jeans in tutta la vita». Silvan non è mai sul tasto off. «Mi alleno tre ore al giorno. Lego alle dita i piccoli pesi da bilancia che usava mia madre. Guardi qui». Scopre l'avambraccio e il muscolo flessore. «Mi serve in forma, per reggere un oggetto nascosto nel palmo. Questo atteggiamento affabulatorio è parte della mia natura. I preliminari creano l'attesa. Come nell'amore». E insomma pare di capire, tra le pieghe delle sue omissioni, che questa storia della magia con le donne funzioni. «È il personaggio che affascina. Ho avuto un debole per il fascino femminile. Mia moglie era molto gelosa ». Bisbiglia. «Lo è tuttora». Figlia di un noto ingegnere inglese, la signora Irene crollò dinanzi all'illusionista. «Era diplomata alla scuola di Belle arti di Saint Martins, allestiva vetrine a Londra per Marks and Spencer. La conobbi mentre vendeva oggetti d'antiquariato per beneficenza. Di una bellezza folgorante. Come oggi. Portava un gibus su un vassoio. Venne al tavolino e le feci spuntare dal cilindro una rosa. Suo padre, un ex ufficiale dell'esercito di stanza in India, era contrario: gli italiani, sosteneva, sono tutti playboy».
Nella sua casa romana al Gianicolo, Silvan custodisce quattromilacinquecento libri. «Da bambino mi nutrivo dei fumetti di Mandrake». Poi s'è messo a studiare le vite di chi in quest'arte è venuto prima di lui. Tutto è cominciato in una pizzeria di Crespano sul Grappa, la sera in cui mettevano in palio per una lotteria un maialino vivo. «Avevo sette anni. Su una pedana salì un signore in marsina, un bel ventre pronunciato, un meridionale. Mi chiamò e riempì le mie mani a secchiello con dieci monete, poi ne infilò tre in tasca e promise di farle riapparire con le altre. Strinsi forte le mani e quando mi disse di riaprirle iniziai a contarle. Arrivato a cinque, già mi accorsi che erano aumentate. La notte non dormii. Quell'uomo mi aveva trasmesso il bacillus magicus. Com'era accaduto? Giravo per bancarelle, compravo libri sulla magia, me ne smerciavano anche sull'occultismo, la teosofia. Una volta ne presi uno perché in copertina c'era un tipo vestito da mago. Ma era Petrolini. Ce l'ho ancora». Gli scaffali, lo studio, il suo rifugio. Si accede attraverso una scala a chiocciola in legno. Una caverna di tesori. Un ritratto di Milo Manara. Un regalo di papa Giovanni. Un teschio di nome Occultus a cui i nipotini vanno a dare il buongiorno. «A nove anni tentai un esperimento. Il figlio del farmacista Colussi mi procurò del solfato di sodio e del cloruro mercurico. Secondo i miei libri, quell'intruglio avrebbe fatto apparire degli scheletri. Non vedevo l'ora. Ma avvicinai il volto alla pentola e mi bruciai le ciglia». Aldo, non ancora Silvan, finì trascinato da suo padre a San Servolo, l'isola dei matti. «Mi fece visitare dal professor Cappelletti, uno psichiatra». Al quale Aldo, ormai già quasi Silvan, fece tagliare in due una cordicella di spago per poi restituirgliela integra, dopo averla masticata. Responso del luminare: «Il ragazzo è in gamba».
E allora che la magia si compia. Questo vuol dire, per Silvan il suo celebre Sim Sala Bim. «All'inizio adoperavo un'altra formula. Dicevo: "Tac tac c'è rumba yama cler". Sim Sala Bim è più orecchiabile: viene dal ritornello di una canzoncina danese». Ha fatto sparire una chiave dalle mani di Orson Welles. «Avevo dieci anni e lui stava girando a Venezia. Dopo trent'anni seppi che mi guardava in tv». Ha fatto muovere il tappeto volante della leggenda nella casa in Tunisia, sotto gli occhi di Keith Carradine e Harvey Keitel durante le riprese del film L'inchiest a. «Lo toccai con il ginocchio mentre distraevo tutti con una monetina». Aneddoti raccolti nella sua autobiografia, La magia della vita (Mondadori). «A Fregene è esaurita», dice, forse ironico, forse no. Silvan è una scatola dentro cui non si deve guardare. Del resto, la distrazione altrui è la sua fortuna. Nella tv d'oggi un suo show farebbe un figurone. «Forse ho scelto questa strada per spingere i ragazzi a dire: da grande voglio fare il mago. Quando ho cominciato in Italia eravamo quattordici. Adesso siamo tremila e cinquecento. Non mi sono pentito. Mai. Se non avessi fatto il mago, forse avrei progettato uno yacht innovativo. Ho dedicato la mia vita a cercare la magia vera. Non esiste. È una gabula. Esiste solo come camuffamento realizzato dall'illusionista attraverso lo studio, la fantasia, la creatività... Ma ho fede. Credo che Dio esista. E credo nella reincarnazione. Oso pensare che un tempo sono stato Giuseppe Pinetti di Orbetello, illusionista del ‘700: girava su un carro trainato da quattro cavalli bianchi». E guarda fisso, dritto, sempre calato nella parte di uno che sta per incantarti. Chissà cosa davvero pensa di noi, di noi ingenui che ogni volta ci caschiamo. «Tutto il bene possibile. Sono io che uso dei trucchi. Voi siete onesti. Ho portato la dignità e la cultura in una figura che veniva collegata al Sik-Sik di Eduardo. Ma un mago non imbroglia. Casomai stupisce turlupinando».
(la Repubblica, 5 luglio 2015)
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