Bill Shankly è stato un meraviglioso signore scozzese. Prima calciatore, una mezzala, poi allenatore. Se un giorno la città di Liverpool è stata grande nel calcio, lo deve a lui. Quando i giornali inglesi compilano le loro liste con le venti, le cinquanta, le cento frasi più belle pronunciate nel mondo del calcio, ecco, Bill Shankly lo trovate di sicuro. Per esempio. «Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Sono molto deluso da questo atteggiamento. Vi posso assicurare che è molto, molto più importante di questo».
Ma Bill Shankly era morto già da quattro anni la notte in cui il calcio si fece macello, corpi nel vuoto, fili di ferro nella carne, poliziotti smarriti che vomitavano a centrocampo. Perché «a volte il destino ti prende in bocca e salpa», come scrivono a quattro mani Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto, inglese il primo, torinese l'altro.
Fra i diversi libri sull'Heysel usciti in questi mesi in occasione del trentennale della tragedia — trentanove morti e seicento feriti dentro uno stadio prima della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool — il loro è nello stesso istante il più asciutto e il più emotivo. Il giorno perduto (66thand2nd, 329 pagine, 18 euro) è un romanzo con molti silenzi fra le pagine, come se ormai solo dentro il silenzio sia forse possibile ricordare senza sporcare, tenere viva la dignità senza indebolire la memoria. Cartwright e Favetto amano il calcio, se ne sono già occupati nei loro libri precedenti. Qui mettono una accanto all'altra le storie parallele di Domenico detto Mich e Christy soprannominato Monk, i loro viaggi che cominciano da due città diverse e che hanno la stessa destinazione, Bruxelles, la sera del 29 maggio 1985.
Il montaggio alternato dà grande forza visiva alle pagine (i passaggi di Cartwright sono tradotti in italiano da Daniele Petruccioli). Un incrocio, impossibile da dimenticare, prima di una tragedia e di una partita regolarmente giocata perché «l'assurdo è così banale che le squadre entrano in campoA. Un romanzo pieno di suggestioni, da Marcinelle a Mennea; un romanzo che racconta il vuoto degli anni Ottanta, pieno di posti molto distanti ma molto uguali, di generazioni che hanno avuto in quel periodo magnifica musica, magnifici film e delusioni tremende.
L'Heysel è un solco. Una volta passato, si smette di essere giovani. L'Heysel mette in crisi l'utopia dei decenni precedenti, la strada, il viaggio, l'avventura. L'Heysel, come scrivono Cartwright e Favetto, ha messo vite sbagliate nel posto sbagliato al momento sbagliato, portando drammaticamente per la prima volta la realtà quotidiana e tutto il suo disagio dentro il calcio: come in fondo aveva intuito Shankly, certamente scherzando, e per fortuna sua senza mai accorgersi che invece aveva previsto il vero. Ma anche se l'esistenza non ha senso non ha direzione, non è invano, ricorda».
(la Repubblica, 3 luglio 2015)
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