IL 16 LUGLIO di Alcides Ghiggia è come il 23 aprile di William Shakespeare. Dentro c'è tutto. L'inizio e la fine. Per chi ama i simboli: è una ruota, un serpente che si morde la coda, il tempo circolare. Qualcuno direbbe: la perfezione.
Siamo affascinati dalle coincidenze, ci commuoviamo dinanzi ai due vecchietti ancora innamorati che muoiono nello stesso giorno e ci domandiamo quale sia la natura del mistero chiuso dentro una data che ricorre nella storia di una famiglia. Il 16 luglio di Alcide Ghiggia è l'ultimo stupore che ci regala il calcio. Deve esserci qualcosa di magico, ci ripetiamo, se il 5 febbraio sono nati tutti insieme Neymar, Tevez e Cristiano Ronaldo. Deve esserci qualcosa di diabolico se il 24 giugno torna con cadenza quadriennale per sbattere l'Italia fuori dai Mondiali: la sconfitta con la Slovacchia nel 2010 in Sudafrica, quella con l'Uruguay nel 2014 in Brasile. E deve esserci di sicuro un incantesimo dietro il 5 maggio che bacia con costanza la fronte della Juve: l'Uefa ipotecata a Dortmund nel 1993, il Real battuto quest'anno per andare in finale di Champions, lo scudetto del 2013 e ovviamente quello del 2002 all'ultima giornata, di cui è cortese tacere in presenza di interisti.
Il calendario gira e poi torna sempre là. Il caso di Shakespeare che nasce e muore nello stesso giorno (il certificato di battesimo è del 26, ma secondo una versione venne steso con tre giorni di ritardo) perde il suo primato letterario al cospetto della storia di Ghiggia, che se ne va nella stessa data a cui è appiccicata la sua gloria, sessantacinque anni dopo aver fatto disperare il Brasile in casa sua, al Maracanã, con il gol decisivo nella finale del Mondiale. Si diventa grandi davanti a 200.000 persone e si saluta il mondo quasi da soli, per fortuna parlando di calcio con il proprio figlio, un biologo, davanti a una partita di Coppa Libertadores in tv. Era una replica, splendida metafora anche questa della condizione di un uomo condannato a vivere sempre lo stesso giorno, sempre e soltanto uno. I figli parlavano mal volentieri di lui dopo la separazione dalla madre: la ragazza, massaggiatrice, gli ha dato cinque nipoti e un pronipote. «Quando è nato lui», diceva Ghiggia, «ho realizzato di essere diventato vecchio».
Il 16 luglio è il giorno della pubblicazione del Giovane Holden e quello della presa del potere di Saddam Hussein. In Italia il Vado ci vinse la sua Coppa Italia e i Vigili del fuoco di La Spezia il loro scudetto di guerra. Ma quel che conta adesso è altro. Ricorda in queste ore qualche sito uruguayano che il diciottenne Ghiggia tenne il provino decisivo per passare alla sua prima squadra, il Sud América, un 16 luglio. Se fosse vero, sarebbe incredibile. Se non fosse vero, sarebbe perfetto. «Il più strepitoso silenzio mai sentito nella storia del calcio». Questo scrisse del Maracanã 1950 e del gol di Ghiggia, Eduardo Galeano. Se ne sono andati nello stesso anno, lo scrittore e il campione, a distanza di tre mesi, condannando l'Uruguay a guardare finalmente avanti.
Il caso segue vie che noi non sappiamo battere. Per questo restiamo senza parole dinanzi a una persona che perde all'ultimo istante un aereo che cade, o a un gruppo di amici imbarcatosi last minute per una vacanza finita male. Quando non sappiamo accettare la forza della discrezionalità, la chiamiamo destino. «Si ricordano di me solo il 16 luglio», si lamentava Ghiggia in vecchiaia e in fondo già da prima, perché il Maracanaço era diventato molto di più e molto di meno di un ricordo. Lo avevano quasi convinto che quello fosse stato il suo unico giorno degno d'essere vissuto. Era la sua ossessione, cosa che lo univa all'altra indimenticabile figura di quella partita, il portiere brasiliano Moacir Barbosa a cui fece gol, poi morto in miseria, discriminato e con la fama di jettatore. Se oggi il Brasile veste la maglia che conosciamo è per colpa di Ghiggia. Mai più in bianco, dissero a Rio, una notte di lacrime e suicidi. Mai più un nero come portiere, giurò un popolo intero. Si racconta che Obdulio Varela, capitano dell'Uruguay, andò a prendere da solo una birra in un bar mormorando: «Perché abbiamo fatto tutto questo a tanta gente...». Di raccontare era ormai stufo Ghiggia, e allora si faceva pagare per tornare sulle sue memorie stanche. Aspettava il giorno migliore per salutare tutti, lui che era l'ultimo superstite di quella sera. Ne avrebbe finalmente avuto un altro nell'addio, uno diverso, per il quale essere ricordato. Povero Ghiggia, stavolta ha sbagliato.
(Da la Repubblica del 17 luglio 2015)
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