L’ho imparato quel giorno perché in porta andai, me la cavai benissimo, parai sei rigori in una partita sola, e ci rimasi per sempre. Chiamatemi Chiquito, risposi a quelli che volevano conoscere il mio nome. Tanto sapevo che il mio cognome vero l’avrebbero sbagliato, lo sbagliavano sempre tutti, la mia famiglia aveva origini polacche, a Montevideo al massimo erano abituati agli italiani. Mazurkiewicz, era un inferno solo immaginare di pronunciarlo. Da lì sono partito, e dove sono arrivato lo sapete. Ho giocato tre mondiali, e in quello del ’70 mi elessero miglior portiere del torneo. Ho sempre pensato d’esserci riuscito perché da bambino, prima di desiderare di essere un mediocampista, giocavo al baloncesto. Il basket mi ha insegnato il controllo del corpo e dei gesti, mi ha insegnato a saltare.
In Messico, in quel magnifico 1970, mi chiamavano tutti il Gatto Nero, per via del colore della maglia e dei miei balzi. Bella fantasia. A noi portieri davano solo soprannomi con l'aggettivo nero, l’Angelo Nero, il Falco Nero, il Gatto Nero. Voi di quel mio mondiale pieno di straordinarie parate ricordate quasi sempre e quasi solo la finta con cui venni ingannato da Pelé in semifinale. Un lancio in verticale, profondo, nessun difensore davanti a me, io che esco dalla porta, arrivo con i piedi dentro la lunetta dell’area di rigore, lui che fa una giocata eccezionale: lascia scorrere la palla lungo la mia sinistra senza toccarla, mi aggira sulla destra e va a riprendersela. Tutti ricordate la finta, ed è giusto, fate bene, ma pochi ricordano che Pelé però non fece gol, ed era la cosa che più mi interessava quando mi lanciai contro di lui. Mi importava quella volta lì e mi importava nella vita. Non prendere gol. Ero pronto anche a gettarlo a terra, pur di non concederglielo. Provai ad afferrarlo con il braccio destro. Mi sfuggì, ma si defilò troppo e quando cercò la porta, la palla si perse sul fondo mentre io di corsa provavo a rientrare. Fuori. Ecco cosa resta. La palla fuori. Non la finta di Pelé. Mica mi importavano i giochetti, le veroniche, i dribbling. Sono cose da mediocampista, quelle lì. E se non mi ci avete voluto lì, in mezzo al campo, allora ho badato ad altro. A essere concreto.
L’anno dopo ero alla partita d’addio al calcio di Yashin. Non ve lo devo certo dire io chi fosse Yashin. E quando tutto finì, dopo le lacrime e il resto, Lev si accosta e mi regala i suoi guanti. Lui se lo ricordava bene che Pelé non mi aveva fatto gol. Ora molti dicono che dopo Yashin, il più grande di tutti noi portieri, sia stato io. Non lo so. Forse. Ma non lo so. Io ripeto sempre che se vuoi essere giudicato il più grande nel calcio, ti devi misurare con l’Europa, che il calcio l’ha inventato. Io in Europa ci sono venuto, mica come Pelé. Sono andato a giocare in Spagna, a Granada, anche se a essere onesti non fu proprio un trionfo. La consacrazione del calcio europeo mi è mancata. Non è poco. Per questo dico che dopo Yashin, bah, a dire il vero non lo so. Però lui, il numero uno dei numeri uno, i guanti volle darli a me. A me che sono stato Ladislao Mazurkiewicz.
Mazurkiewicz è morto a Montevideo il 2 gennaio del 2013, all'età di 68 anni.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Ladislao Mazurkiewicz sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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