I passaggi furono quindici, me lo ricordo ancora. Ricordo la corsa all'indietro che fece Cruyff per andare a prendersi un pallone a ridosso della sua area. Poi rimase lì, a centrocampo, e al quindicesimo passaggio consecutivo, senza che noi tedeschi toccassimo mai il pallone, lo vidi partire verso di me. Accelerò in uno spazio vuoto che forse aveva visto solo lui, forse neppure c'era, lo aveva creato da solo. Toccò il pallone otto volte tenendolo sempre incollato al piede destro, collo, esterno, collo. Non c'era niente da fare. Mi avrebbe fatto gol, dovemmo buttarlo giù. Calcio di rigore. Neppure un minuto di partita, neppure un minuto della finale che giocavamo in casa contro l'Olanda, e c'era rigore per loro.
E' forse l'azione più analizzata nella storia del calcio. E' l'immagine che spiega tutto o quasi del calcio totale, il calcio all'olandese, chiamatelo come vi pare. Io ero dall'altra parte. Quando Cruyff cadde in area, nessuno dei miei andò a protestare con l'arbitro. Eravamo afflitti, non arrabbiati. Depressi dopo neanche 60 secondi di gioco. Né io mi illudevo che quel rigore lo avrei parato, chiunque di loro fosse venuto a tirarlo. Beckenbauer si avvicinò all'arbitro, ma solo per fare un po' di scena. Voleva condizionarlo, non era una protesta vera. Neeskens venne sul dischetto con un'idea sola. Calciare forte. Probabilmente senza mirare. Un tiro forte, e via. Gol. Uno a zero per loro.
Com'è finita lo sapete. Il mito dell'Olanda totale si squagliò negli 89 minuti successivi, 2 a 1 per noi, Germania campione del mondo. Eppure, quando ripenso a quel giorno, io ripenso a quel minuto. Il primo. Ripenso allo sbuffo di gesso che Neeskens sollevò calciando. E mi dico che se abbiamo battuto una squadra che in un minuto rinchiuse tutto quello che nel calcio si può fare - passaggi, accelerazioni, scatto, qualità - allora i migliori eravamo noi.
Ho giocato più di 400 partite in Bundesliga, il campionato tedesco. Ho l'esperienza giusta per dire che quella Germania era grandissima e che il mio Bayern era la squadra migliore al mondo. Potete ritenermi di parte, ma era così. Il Borussia Moenchegladbach era una squadra impulsiva, l'Ajax era una squadra elegante, noi eravamo tutt'e due le cose, noi eravamo i migliori.
Gli anni più belli del calcio. Si andava a giocare a Francoforte in treno, e la gente ci lasciava in pace. Quando oggi si sposta una squadra di calcio, si blocca il traffico. Non perché ci sia più interesse di prima: questo sarebbe positivo. L'interesse non è cambiato, ce n'era tanto anche ai miei tempi. C'è solo più isteria. Il campionato di calcio adesso sembra un affare di Stato. Io guadagnavo 1.200 marchi al mese, più un premio che oscillava fra i 50 e gli 80 marchi a punto. Era un ottimo stipendio: un litro di birra costava 25 centesimi. Si giocava senza fare tanto gli schizzinosi, se mi facevo male non facevo troppe storie, non andavo dal medico per ogni dolorino. Quella volta che mi sono lussato il dito, sono passato al campo ad allenarmi. Molte volte nascondevo gli infortuni, per il timore di perdere il posto in squadra.
Eravamo più allegri. Eravamo dei professionisti, ma il calcio rimaneva un gioco. Ai solenni banchetti che il Bayern dava per festeggiare le vittorie, mi nascondevo sotto i tavoli del buffet e mi divertivo a legare fra di loro i lacci delle scarpe di chi veniva a prendere qualcosa da mangiare. Ne ho visti tanti andare giù. Volevo solo far ridere la gente. Per dire: una volta infilai un coniglio dentro la borsa del dottore. E la mia faccia di oggi racconta quanto sia stata felice la mia vita.
Sono un portiere per caso. Ho cominciato da ragazzino come ala sinistra al TSV Haar, ma non la mettevo mai dentro. La porta proprio non la vedevo. Partite e partite senza segnare. Prendiamoci una pausa, mi disse allora il mister, gioca per una partita in porta: potrebbe aiutarti. Mi sembrava una procedura strana. Di certo la cosa aiutò gli altri. Gli avversari, dico. Vinsero 12-0, ma se raccontassi che io fui il migliore in campo sono sicuro che non mi crederebbe nessuno. Pensavo che sarebbe stata davvero una pausa. Solo che alla successiva partita arrivo negli spogliatoi e sento dall'allenatore, si chiamava Weiss, che sono di nuovo in porta. In porta? Io? Ma sono un attaccante, gli rispondo. E poi non ho con me la roba da portiere. Per la roba non ti preoccupare, mi fa, l'ho portata io. Non c'era niente da fare. Andai in porta. Vincemmo 3-1 e parai due rigori. Cosa che per inciso non mi è mai più successo. Ma le cose succedono quando devono. Doveva succedere quel giorno, perché io diventassi Sepp Maier.
Ho raggiunto il Bayern che avevo 15 anni e sono stato sempre orgoglioso di far parte di quella squadra. La sera prima di una partita mangiavo porchetta e bevevo una birra di frumento. Era la mia dieta. Ma Franz Roth, per dirne una, mangiava tre fette di torta poco prima di scendere in campo. Come lo chiamavamo non lo dico. Una volta i soprannomi di noi calciatori restavano nel segreto degli spogliatoi. Jeremies era la patata, lasciamo perdere perché. Un giorno, in allenamento, asciugando un pallone con un telo, mi accorgo che il lattice fa attrito. Mmm. Ci penso, ci ripenso. Idea. I guanti. I guanti da portiere. Erano di gomma, al massimo li trovavi con delle puntine sopra: ma il pallone scivolava lo stesso. Ne parlai con Gebhard Reusch, il proprietario dell'azienda che li fabbricava. Facemmo un po' di tentativi e Reusch inventò i guanti in schiuma di lattice. Ne cambiavo due o tre a settimana, si consumavano in fretta. Poi Reusch intuì che bisognava cucire il lattice su ogni dito. I miei guanti erano giganti. Li chiamavano i guanti di Topolino. E diventammo campioni del mondo.
Ho smesso cinque anni dopo, era il '79. Colpa di un incidente d'auto. Sono vivo grazie a Uli Hoeness. Fu lui a capire che dovevamo cambiare ospedale, e anche in fretta. Mi trascinò via di pesò, i medici spiegarono che un paio d'ore ancora e sarebbe stata la fine. Gli devo la vita, gli devo tutto. Mi volle ancora al Bayern, come allenatore dei portieri. Disse che aveva trovato una pietra preziosa nel Karlsruhe e voleva che la trasformassi in un diamante. Era Kahn. Credo di esserci riuscito.
Ma oggi con il calcio ho chiuso davvero. A febbraio, quando ho compiuto settanta anni, mi ha chiamato Rummenigge. Il Bayern voleva organizzarmi una festa. Ma no, lasciate stare, gli ho risposto: non posso neppure bere la birra, cosa ci vengo a fare. Me ne sono rimasto a casa. Sul mio divano. Dove guardo la partita. Quando posso, se posso, se mi va. Allo stadio andateci voi, pazzi scalmanati. Io ho dato quello che dovevo. Adesso lasciatemi qui.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Sepp Maier sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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