Gelsenkirchen, 22 giugno 1974. Le cose andarono così. Era la terza e ultima partita del girone. Avevamo giocato e perso le prime due: io avevo subito due gol dalla Scozia all'esordio e nove dalla Jugoslavia successivamente. Per la precisione: dalla Jugoslavia ne avevo presi personalmente solo tre, tre nei primi 21 minuti, prima di essere sostituito dal nostro ct, Vidinic, uno jugoslavo. Dentro la mia riserva, Tubilandu Ndimbi e fuori io, Mwamba Kazadi.
La prima volta che il povero Tubilandu toccò il pallone, fu per raccoglierlo dalla porta: era il quarto gol. Poi il crollo. Peraltro eravamo anche rimasti in dieci. Espulso Mulamba. L'arbitro aveva sentito un calcio al polpaccio durante le proteste, sul 4-0, si era voltato e aveva mandato fuori il primo che gli era capitato sotto gli occhi. Vidinic spiegò solo il giorno dopo il motivo della mia sostituzione. Glielo aveva chiesto Lockwa, il rappresentante del ministero dello sport. Giurò che non si sarebbe piegato mai più. Quando tornammo in albergo, passarono pochissimi minuti prima di essere informati che Mobutu, il presidente, aveva definito quella sconfitta una vergogna nazionale. Eravamo passati da eroi a infami. Eroi per essere la prima nazionale dell'Africa sub-sahariana a qualificarsi per un Mondiale di calcio. Infami perché avevamo gettato discredito su di lui, "il guerriero che va di vittoria in vittoria".
In realtà, dalla Jugoslavia ne avevamo presi nove perché eravamo arrabbiatissimi, distratti, con i pensieri altrove. Ci era appena stato comunicato che tutti i premi per la qualificazione non esistevano più. Una promessa rimangiata. Eravamo convinti che saremmo tornati dalla Germania e che Mobutu ci avrebbe reso ricchi con un appartamento, una macchina e una vacanza negli Usa per ciascuno di noi. Invece crollava tutto. Andammo nel pallone. Il giorno dopo il 9-0 eravamo spaventati. Tra di noi si parlò della eventualità di ritirarci e di lasciare i Mondiali senza affrontare il Brasile. Se la Jugoslavia ce ne aveva segnati nove, il Brasile quanti ce ne avrebbe fatti? La Fifa non ci permise di rientrare. Parlammo con dei funzionari delle nostre difficoltà economiche e a quel punto la stessa Fifa si fece carico di un indennizzo di 3.000 marchi a testa per ciascuno di noi, all'epoca erano cinque o seicento dollari. Non ricordo precisamente come, ma dallo Zaire il governo ci fece sapere che se avessimo perso più di 3-0 con il Brasile, ecco, sarebbe stato meglio per tutti non tornare a casa. Il nostro hotel venne chiuso ai giornalisti. Eravamo isolati. Mobutu faceva sul serio. Allo sport aveva affidato il compito di lustrare l'immagine del Paese, lo Zaire godeva di ampie simpatie fra i paesi democratici dell'occidente: quattro mesi dopo Kinshasa avrebbe ospitato il match per il titolo mondiale dei pesi massimi, fra Ali e Foreman. Prima dello 0-9, quando eravamo re, Mobutu ci trattava come tali. Nel precedente mese di marzo eravamo diventati campioni d'Africa. Il paese si era tassato per garantirci un premio, un premio che tardò a essere consegnato. Al Brasile, quel giorno, servivano proprio tre gol per passare il turno e fare fuori la Scozia. Il primo tempo si chiuse sull'1-0, con molte mie parate, un salvataggio sulla linea, tanta fortuna. Nell'intervallo, l'intera delegazione brasiliana venne a parlare con il nostro ct. Quando andarono via dagli spogliatoi, Vidinic ci disse di stare calmi, di congelare il gioco, di non attaccare. E così facemmo. Questo era il contesto. E arrivò quel calcio di punizione.
Illunga Mwepu venne ammonito. Quando tutti cominciarono a ridere, sentii Mwepu che urlava bastardi, dava del bastardo a tutti. Nessuno capiva la pressione cui eravamo sottoposti. A dirla tutta, eravamo cresciuti con una certezza: ci avevano detto che se un calcio di punizione non veniva battuto entro tre secondi, diventava un free kick, un pallone a disposizione di tutti. Così ci avevano insegnato a casa nostra i belgi, quando eravamo ancora una loro colonia. E Illunga Mwepu partì. Curiosamente, va detto che Mwepu non avrebbe neppure dovuto giocare contro il Brasile. Il calcio all'arbitro, nella gara con gli jugoslavi, glielo aveva dato lui.
Con il Brasile finì proprio 3-0. Non prendemmo il quarto gol che Mobutu non ci avrebbe perdonato, loro segnarono quelli che bastavano per passare il turno. Il terzo, di Valdomiro, fu un errore mio. Strano: in genere combinavo pasticci nelle uscite. Valdomiro invece mi sorprese sul mio palo. Brasile avanti, scozzesi fuori. Faceva piacere anche a noi. Gli scozzesi dovevano pagarla. Ci avevano insultati per tutta la partita. Intorno al mio Zaire, il Mondiale era iniziato con un brutto clima. Il cliché della squadra sub-sahariana era pure sulle figurine dell'album ufficiale del torneo. Alcuni giornali scrissero che avevamo con noi delle scimmie, per mangiarle durante il torneo. E per l'intera partita, il numero 4 scozzese, Billy Bremner, ci chiamava negri, e sputava. Sputò sulla faccia di Mulamba Ndaye e di Mambwene Mana. Britannica era la squadra di rugby che a maggio aveva accettato l'invito per giocare una tournée in Sudafrica, il paese dell'apartheid. E allora no, non piansi per quell'errore sul tiro di Valdomiro. Al rientro a casa, Mobutu ci convocò d'urgenza nel suo palazzo. Non urlò, ma la sua voce era ferma. Ci disse che tutti gli onori previsti potevamo scordarceli, e potevamo anche stracciare gli accordi che qualcuno aveva presa con club stranieri. Non siete come i senegalesi, o gli ivoriani, disse, non crediate di lasciare lo Zaire e andare a giocare fuori. A proposito. I premi non li abbiamo visti mai più.
Mwamba Kazadi è morto nel 1996 a 49 anni.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Mwamba Kazadi sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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