lunedì 12 marzo 2018

Quando rapirono Nils Liedholm

L'illustrazione è a cura di @a_jack_drawings (instagram)

Sedicesimi di finale: Svezia 1958 - Argentina 1986
Dove si ragiona su cosa vada insegnato ai ragazzini

“Rapiremo Nils Liedholm”. Le tre parole scritte su un foglio a quadretti vennero recapitate in albergo tra le mani del portiere alle dieci e un quarto di un giovedì sera, quando per lo spavento provato dinanzi alla faccia dell’uomo che sbiancava, la vecchia stiratrice si bruciò un dito nell'assestare una botta di calore a un colletto inamidato. Il portiere si chiamava Kalle Svensson, ed essendo l’ultimo di dodici figli aveva affinato l’arte di catturare l’attenzione facendo la cosa giusta nel momento giusto. Perciò strappò il ferro di mano alla donna e prese a salire le scale a quattro a quattro, perché così s’era sempre detto, altrimenti per l’ansia a sei a sei le avrebbe fatte, a nove a nove anzi, e comunque mai in numero che non fosse multiplo di tre. Con la piastra in alluminio dell’arnese, Svensson vibrò un colpo alla porta del compagno Nils, spaccò la serratura, e una volta messo piede in camera, scoprì che la lettera diceva il falso. Non avrebbero rapito Liedholm. Liedholm lo avevano rapito già.


Un ritardo delle poste aveva fatto giungere la minaccia a piano realizzato, questo fu subito evidente a Svensson, considerando che la stanza di Liedholm detto il Barone era vuota, la finestra aperta e che da lì si riusciva a intravedere una mongolfiera volare in alto, in un frastaglio minuto e senza fine di rami e foglie, di biforcazioni e lobi, e spiumii, in un cielo di ritagli e di sprazzi irregolari [1].

Il primo canale della tv svedese interruppe la trasmissione del Melodifestivalen proprio mentre gli Amma presentavano a 4 milioni e 240mila spettatori la loro ultima canzone, The Illogical Song, storia di un giovanotto semplice che scopre casualmente, dinanzi a una bancarella di caldarroste, la gravidanza non desiderata della fidanzata [2]. A metà del melodramma pop, corrispondente circa al quarto mese e mezzo di gestazione nella ragazza, il telegiornale prese la linea e diede alla Scandinavia intera la notizia, accompagnata dall'impegno del ministro socialdemocratico alla sicurezza interna che tutto sarebbe stato fatto per restituire Liedholm alla squadra, meglio se in tempo per l’esordio dei Mondiali. Fu l’intero paese a mobilitarsi. Giungevano da ogni città - non solo da Stoccolma, ma anche da Malmö e Göteborg, da Gävle e Umeå - le immagini delle manifestazioni popolari guidate dal movimento Fri-Nils Kvinner, ragazze che per protesta facevano il bagno vestite nelle fontane in piazza, perché l’indifferenza della gente - spiegavano con filosofia - va smossa come l’acqua gelida. Il tennista Bjarne Bengt, l’uomo che aveva rivoluzionato il suo sport inventando il servizio a due mani e imponendolo alle masse insieme ai nastrini gialli e blu fra le treccine, annunciò l’istituzione di una taglia sulla testa dei rapitori, e si disse disposto a donare anche due delle coppe vinte a Forest Hills pur di avere informazioni utili per riportare a casa il Barone.

La caricatura di Hamrin
nell'album Panini
1968/69
La polizia scartò dopo le prime indagini la pista danese. Il commissario Erland convocò Preben Elkjaer Larsen, gli puntò come nei film una lampada sul viso e gli chiese cosa sapesse del piano dei servizi di Copenhagen per menomare la Svezia a così pochi giorni dalla partita con l’Argentina. Elkjaer vestiva una camicia a quadroni sotto la quale si intravedevano le spalline di una maglia di salute, portava un solo mocassino con calzino bianco e proprio continuava a non capire. Ripeteva solo che l’esclusione della sua nazionale dai Mondiali non poteva essere considerata ragione di sospetto, non erano stati loro, non era l’invidia dei danesi il movente del gesto. Quando iniziò a perdere sangue dalla sua narice destra, il commissario Erland se ne convinse, così come qualche giorno dopo scartò per l’arrivo di un crampo a un polpaccio l’ipotesi che il rapimento fosse opera dei guerriglieri montoneros. Il primo passo di ogni indagine era sempre per Erland l’ascolto del proprio corpo e di quella sorta di psicosomatismo al contrario che lo accompagnava dall'adolescenza e dal giorno in cui sbagliando la soluzione di un binomio avvertì una fitta alla milza. I dolori si affacciavano a segnalargli le conclusioni errate, mentre la loro assenza gli faceva intendere che si trovava sulla strada giusta. Perciò negli ultimi anni della sua vita non riuscì a risolvere alcun caso, perché non aveva più modo di distinguere i segni dalle patologie, confondendo i presagi con la prostata. Fu il cruccio con cui se ne andò in pensione, e dopo alcuni anni di atroce malattia morì sedato, sotto l’effetto di una dose di morfina. L’analisi della grafia, incerta e semplice, fece emergere la convinzione che i rapitori avessero usato uno o più bambini per l’invio del loro messaggio. Fu a quel punto che a Gunnar Gren venne un lampo. “Ho capito io dov'è nascosto Nils”, disse agli uomini di Erland, “ma devo avere mani libere per occuparmene”. Dopo una discussione interna che causò tre giorni di sciopero proclamati dal sindacato degli agenti di Uddevalla, estesi poi al resto della nazione, il capo della polizia acconsentì e delegò le indagini a una pattuglia di calciatori composta da Gunnar Gren, Kurt Hamrin, Lennart Skoglund e Arne Selmosson. “Ma se tornate senza di lui, vi sputtano in dieci minuti” fece Erland scolandosi una zuppa di mirtillo nero senza crema montata per vincere un improvviso attacco gastrointestinale, che detto per inciso lo rese pessimista sul buon esito della missione.

Jorge Valdano
visto da Odón Elorza
Fu suggerito agli argentini di non opporsi alla richiesta di rinviare la partita. Jorge Valdano convinse i compagni a non gettare capelli nel latte [3], e a nome della squadra accettò la proposta, rilasciando un’intervista ai tg svedesi in cui sosteneva che “se accettiamo l’idea che si debba vincere a ogni costo, non saremo lontani dal proclamare che anche la corruzione in fondo è giustificabile” [4]. Gren ringraziò e si mise in marcia calzando certi sgargianti scarponcini con una zeppa rigata. Tenne nascoste pure ai suoi amici rotta, mappa e destinazione finale del cammino, temendo nell’ordine il pedinamento degli uomini di Erland, gli scoop dei giornalisti di El Gráfico e i seni al seguito delle Fri-Nils Liedholm, giacché sulla continenza generale non avrebbe garantito. “Riservatezza, riservatezza” predicò per i tre giorni in cui durò la scarpinata fra le betulle e il vento, dentro le nebbie, con due sole soste in tutto, per cucinare al gruppo ormai stremato narici d’alce e aringhe fermentate al sole [5]. Hamrin a metà strada ebbe un dubbio: “Non staremo mica andando a piedi in Italia?”. Selmosson si sistemò meglio sotto al braccio il quadro del maestro Ciliberti che aveva voluto portarsi dietro (“Non si sa mai - disse - nel caso non tornassimo”), bevve due sorsi di latte da una bottiglia e brontolò: “L’Italia, l’Italia... Svedesi che per tutta la vita pensano solo all’Italia...” [6]. Skoglund era dei quattro l’incaricato a occuparsi dell’accampamento, perché da ragazzo aveva venduto persiane e avrebbe saputo meglio di tutti come tenere fuori la luce e il freddo.

Alle undici del terzo giorno di viaggio, Gren riconobbe da lontano la sua meta e disse: “Siamo arrivati”. Quando entrarono a passi larghi nel territorio della neo-repubblica di Belgravia, finalmente pacificata e liberata dal potere di Nestor Grimka [7], i Quattro si diressero dritti al campo, senza curarsi degli sguardi della popolazione, incuriosita e preoccupata per l’arrivo degli stranieri. Al centro del prato stava uno sciame di bambini che correva seguendo le indicazioni di un vecchietto, seduto, le gambe incrociate, la schiena rivolta agli svedesi in arrivo. L’uomo gridava un numero ai piccoli, e quelli dovevano disegnarne i contorni sul prato con la palla al piede. Gli spigoli del quattro. Le curve dell’otto. Le irregolarità del cinque [8]. Hamrin scrutò la scena, allargò le braccia e mormorò tutto il suo scetticismo: “Lo sapevo. Non c’è”. Selmosson si lasciò cadere per la stanchezza e lo sconforto, mentre Skoglund cominciò a cercare un modo per far avere sue notizie alla moglie in Calabria. Solo Gren restò impassibile, e con la voce ferma, capace di controllare l’emozione, ordinò: “Voltati, Nils. Lo so che sei tu”.

La locandina del film
in Italia
Più tardi, a pranzo, Nils raccontò per filo e per segno il piano del rapimento simulato. Voleva allenare, senza più giocare. “Io mi sento realizzato da maestro. È qui che devo stare”. Insegnava a colpire il pallone col destro e col sinistro, d’interno e d’esterno, di piatto e di collo, di tacco e di sponda, di controbalzo e al volo. Aveva per tutti una parola di incoraggiamento. Convinse un ragazzino che somigliava a Mandressi, a un altro disse che gli ricordava Tosetto, e riconobbe in un attimo in mezzo ai tanti il nuovo Antonelli, il nuovo Gaudino, i nuovi Valigi e Marangon. “Bravo, così”, incitò un undicenne, “calci come Osellame” [9]. Aveva diviso gli scolari in dodici squadre, ciascuna portava il nome di un segno zodiacale e organizzava tornei lunghi un giorno intero, che si chiudevano nove volte su dieci con la vittoria della Bilancia [10]. Correggeva gli errori a voce bassa e quasi sempre con una battuta spiritosa, tanto che i ragazzini si divertivano a sbagliare di proposito per sentirne un’altra delle sue. Il più dotato di tutti era un piccolo prodigio di sei anni venuto da Hammarby [11]. “Qui però farai fatica a toccare palla”, lo aveva accolto Liedholm, e quando alla fine quello gli fece notare che aveva segnato 57 gol in 11 partite Nils rispose: “Vero. Ma hai fatto solo quello”. Ai difensori insegnava un unico movimento: voltarsi subito, accompagnare la palla, tagliare fuori l'attaccante e costringerlo al fallo. “Baresi lo faceva benissimo, tranne gli ultimi anni”. Il suo pupillo, lo avevano capito tutti, era uno stecco alto come una betulla, il figlio di un muratore bosniaco emigrato a Rosengård. Non tanto perché avesse talento, e solo Odino sa quanto ne avesse, ma perché nel ragazzo intuiva le doti migliori per diventare un campione. Malinconia, tristezza e propensione al silenzio. Pochi sapevano che al tramonto Liedholm portava il giovane Zlatan davanti al mare, per raccontargli improbabili epopee di questo e quello, come di Nordahl che a Palermo segnò all'incrocio dei pali e il pallone s'incastrò nel sette. “Sai perché i campioni di una volta ci sembrano più forti?”. Zlatan non lo sapeva. “Perché giocavano con compagni molto più scarsi di loro”. Gli guardò le gambine rinsecchite. “Ma con i metodi d’allora voi vi rompereste in due settimane. Perché oggi c’è più carne, ma anche più televisione. I ragazzi hanno mille svaghi o nessuno, comunque pochi giocano al calcio. Stanno scomparendo i campi per la strada, le porte con i sassi. Il calcio attinge dai ghetti, come il pugilato. E a vent'anni molti hanno già la pancia piena. Per noi il calcio era il tempo libero, la selezione era grande come la fame. Io studiavo calcio notte e giorno, mi addormentavo sul perché di un allenamento, di una tattica, non pensavo ad altro. Molti erano come me. Si parla di Cruyff e Beckenbauer. Io credo che se giocassi oggi sarei l’uno e l’altro insieme”. Zlatan ascoltò la tirata e chiese: “Maestro, il calcio è difficile?”. Liedholm fissava l’orizzonte e non si voltò. “Il calcio è semplicissimo. Ma bisogna prima capire cos'è la semplicità” [12].

La caricatura
di Liedholm
firmata
da Molino
per l'Intrepido
I Quattro non riuscirono a smuoverlo. Liedholm aveva deciso di non tornare. “Devo far imparare agli svedesi la zona, che è il gioco più adatto ai romani, il gioco per pigri con un cervello” [13]. Preferiva le rughe e il mestiere del maestro a una magica giovinezza con un posto in campo ai Mondiali. “Ma voi andate, andate pure”, mormorò col sorriso. “Senza di te perderemo” gli disse Gren. “E cosa importa? Noi veniamo da un paese in cui prima di tutto è importante partecipare. È questa la nostra mentalità d’origine. Le conseguenze sono un distacco dai drammi quotidiani del calcio. Lasciamo che siano gli argentini a sentire la passionalità come un dovere e la nevrosi come un’abitudine” [14]. Quando Gren, Hamrin, Skoglund e Selmosson imboccarono la via del ritorno, si accordarono per mentire a Erland e raccontargli che di Liedholm non avevano trovato traccia. Si voltarono a salutarlo un’ultima volta e lo colsero pensieroso, in preda al rimorso di aver dribblato troppi bambini durante le lezioni, perché quando un bambino tocca poco la palla, si annoia e smette di giocare [15].

Il tabellino della partita
Svezia 1958 - Argentina 1986 1-4
Svezia: Svensson 5.5; Bergmark 5, Axbom 5.5; Borjesson 5, Gustavsson 5.5, Parlino 5.5; Hamrin 6.5, Gren 6.5, Simonsson 5.5, Selmosson 6.5, Skoglund 6.5
Argentina: Pumpido 6.5; Giusti 6, Olarticoechea 6; Brown 6, Cuciuffo 6, Ruggeri 6.5; Burruchaga 7 (dal 77’ Bochini 6), Batista 6, Valdano 7.5, Maradona 7, Enrique 6 (dal 65’ Pasculli 6.5).
Arbitro: Walt Tyrus (Ohio, Usa)
Reti: 18’ Valdano, 35’ Burruchaga, 44’ Hamrin, 59’ Maradona, 67’ Valdano

note al testo
[1] Evidentemente tutti i baroni escono di scena allo stesso modo e con le stesse parole (cfr. Italo Calvino, Il Barone rampante, 1957).
[2] Cfr. la filosofia dei Supertramp (“There are times when all the world's asleep / The questions run too deep / For such a simple man”) e la poetica dei Cugini di Campagna (“Che odore di castagne al fuoco / Se tu ne hai voglia te ne prendo un po’”).
[3] Modo di dire argentino. Echar pelos en la leche, gettare capelli nel latte, dire cose affrettate. 
[4] Jorge Valdano, Le undici virtù del leader. Il calcio come scuola di vita, 2013.
[5] I piatti preferiti da Nils Liedholm, come scrisse Gianni Mura su Repubblica il 6 novembre 2007. [6] L’arrivo degli svedesi in serie A fu una scossa. Il 29 marzo 1992 Liedholm raccontò come fece la conoscenza della scaramanzia e la sua reazione a Roberto Perrone, su Corriere della sera: “Quando noi svedesi siamo arrivati il primo anno cominciammo bene il campionato. Così l'allenatore non ci faceva cambiare il vestito. Un freddo. Ci siamo detti: allora meglio perdere qualche partita".
[7] Lo stato è situato nel mar Baltico e appare in alcune storie di Paperinik (Disney).
[8] Ancora Gianni Mura il 6 novembre 2007: “Nel giardino della villa di Cuccaro chiamava i numeri e i ragazzini li disegnavano col pallone. La sua preoccupazione era di insegnare la tecnica, prima che un allenatore innamorato dei due tocchi e via mandasse in soffitta pure quella (...). E questa fissazione della lealtà, della correttezza, del calciatore che è bravo quando toglie il pallone all'avversario senza fare fallo. E questa passione per il calcio che lo portava a essere, oggi possiamo dirlo, un maestro vero. Non uno che si diverte con le lavagnette, ma uno che sta mezz'ora in più sul campo per migliorare il piede sinistro di un giocatore, i cross da destra di un altro. Del maestro aveva la cultura e l'umiltà, che a volte mascherava con le battute (aveva un forte senso dell' umorismo, Nils). Non si ricorda un suo scatto d'ira, un gesto scomposto, una voce alzata, una polemica volgare. Per questo era il Barone e per questo sembrava fuoritempo”. Liedholm aveva giocato 359 partite nel Milan senza essere mai ammonito. Per Sandro Modeo (Corriere della sera, 28 novembre 2008) questo era il suo stile: “La sintesi di una filosofia in cui confluiscono severità luterana, altruismo socialdemocratico e un understatement che gli permette di innovare in sordina, prefigurando la rivoluzione-Milan, anche se il suo possesso-palla euritmico proseguirà, più che nel furore geometrico sacchiano, nelle tessiture di Van Gaal”. Scrive Mario Sconcerti, in Storia delle idee del calcio, 2013: “La caratteristica di Liedholm era che non si poteva insegnargli niente. Non era un neofita, non era uno sprovveduto. Era anzi un maestro di calcio, riconosceva un campione due anni prima degli altri. Fece debuttare Baresi e Maldini a diciotto anni, Antognoni a diciassette, Di Bartolomei anch'egli a diciotto. Scoprì Peruzzi, inventò un Milan di ragazzi. Spostava i mancini a destra e viceversa (Nela, Conti) perché voleva "vedessero il mondo da un'altra prospettiva". Era insomma un personaggio unico, anche se era un cane sciolto. Liedholm non si sarebbe mai sentito un portatore di una tesi. Lui non era una tesi, era la Verità. (...) Scelse di giocare a zona perché era naturale e perché considerava il calcio il gioco dell'uomo. (...) In realtà il suo gioco non aveva niente del calcio totlate olandese. Era una zona lenta, il traguardo era tenere palla finché l'azione non forniva lo spunto per un affondo importante. (...) Primo, tenere sempre noi il pallone. Finché lo teniamo noi, gli avversari non possono farci danno. Secondo, giocare più alti possibile. Stessa logica conclusione: finché la palla è nella metà campo degli altri, noi non corriamo rischi. Liedholm non fu un innovatore e nemmeno un terremoto”.
[9] Liedholm amava accostare i suoi giocatori ai grandi del passato, per il gusto del paradosso e per far crescere la loro autostima. Il 30 luglio 1981 Gianni Mura scrive che aveva paragonato Mandressi a Resenbrink, Scarnecchia a Surjak, Nela a Cervato, Marangon a Masopust, Valigi a Giresse. Scriveva Giulio Nascimbeni su Corriere della sera, l’8 ottobre 1987: “Parole come battaglia, dramma, assedio, vigilia d'armi, variamente tolte al linguaggio bellico o a quello teatrale per introdurle nelle crocìnache sportive, non sfiorano nemmeno i suoi pensieri. Con il getto d'acqua d'una battuta, Liedholm spegne bollori e polemiche. E cioè è tanto più sorprendente in un Paese come il nostro così restio ad accettare e apprezzare l'ironia, al punto che Leo Longanesi proponeva di usare, per le frasi ironiche, uno speciale carattere tipografico per renderle subito riconoscibili”.
[10] Amante dell’astrologia, Liedholm sosteneva, come disse a Marco Morelli, Guerin Sportivo, nella primavera del 1983, che “i migliori sono quelli della Bilancia: Pelé, Nordahl, Falcao, Didi, Sivori, Charlton, Piola. Ma anche gli Scorpione e gli Ariete non sono complessivamente niente male”. Ovviamente lui era Bilancia.
[11] Dovrebbe trattarsi di Fimpen Bergman, protagonista del film Fimpen il goleador (1974) di Bo Widerberg. 
[12] Le frasi di Liedholm sono tratte da interviste date a Gianni Mura e Mario Sconcerti il 25 luglio 1979, il 14 gennaio 1980, il 24 luglio 1982.
[13] Così a Gianni Mura, la Repubblica, 9 agosto 1981. 
[14] Così disse a Mario Sconcerti, la Repubblica, il 17 febbraio 1980. 
[15] Il rimpianto è espresso nell'intervista rilasciata a Luigi Garlando, per la Gazzetta dello sport, il 3 maggio 1998.

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