giovedì 22 marzo 2018

Il calcio visto alla radio

Qualche minuto dopo le quindici, sotto la pioggia, per la prima partita che la Nazionale
giocava nella sua storia a Roma, si presentarono allo Stadio del Partito Fascista il ministro
Giuriati, i sottosegretari Giunta e Balbo, il vicesegretario Starace, l'ammiraglio Sirianni e
venticinquemila spettatori. Tutti gli altri scoprirono che il calcio non si doveva per forza
guardare, ora si poteva anche ascoltare a casa. Bastava accendere la radio. Il 25 marzo del
‘28 - novant’anni fra pochi giorni - gli italiani si imbattevano senza capirlo in una faccenda
che avrebbe finito per cambiare le abitudini della società.


Cinque anni e mezzo dopo la presa del potere e settanta giorni dopo la fondazione dell’Ente italiano per le audizioni radiofoniche (Eiar), un giovane giornalista della Gazzetta dello Sport raccontava dal gradino più alto della tribuna, dentro un microfono agganciato a uno sgabello, la rimonta dell’Italia contro l’Ungheria, dallo 0-2 del primo tempo al 4-3 finale, facendo nascere così un’abitudine,
un bisogno e un lessico nuovo. Il governo fascista aveva colto quanto fossero funzionali alla propaganda la radio e il calcio, figurarsi poi la radio e il calcio messi assieme. Rientrato in quei giorni a Sorrento, lo scrittore russo Gorkij dichiarava ai giornali che “la radio è un grande fattore di progresso, di affratellamento e d'unione tra i popoli di questo mondo. Tutte le razze e le nazioni
impareranno per mezzo della radio a meglio conoscersi l'un l'altra. Ma vi saranno sempre le
guerre”.

Solo 48 ore prima di Italia-Ungheria, la Camera dei deputati aveva approvato il bilancio del ministero delle Comunicazioni con un discorso di Costanzo Ciano che prometteva di trovare alla radio italiana "il suo degno posto tra quello delle nazioni più progredite". Quanto al potere del calcio, Mussolini riceveva la Nazionale al Viminale, la capitale celebrava la nascita della Roma, e il regime si preoccupava di evitare la retrocessione a Lazio e Napoli, affinché il campionato smettesse di essere un passatempo solo settentrionale.

Privo di una tradizione a cui rifarsi, il giovane giornalista Giuseppe Sabelli Fioretti adottò il metodo inventato un anno prima dalla Bbc per la diretta di Arsenal-Sheffield. La radiocronaca come una battaglia navale. Alcuni giornali inglesi avevano pubblicato una mappa del campo divisa in più settori. “Così al microfono era possibile raccontare che la palla passava nella zona A1 e che un traversone era finito in B4”. Claudio Sabelli Fioretti, giornalista scrittore e conduttore radiofonico (Tre di cuori, Radio 1 Rai), figlio di Giuseppe, ha provato a ricostruire cosa accadde quel pomeriggio nello stadio che oggi si chiama Flaminio, abbandonato. “Mio padre parlava poco di sé. Ci teneva a ricordare che non era stato l’unico in trasmissione, accanto a lui sedeva Enrico Sargentini, che diversi anni fa provai a rintracciare”. Gli italiani che nel 1928 avevano un apparecchio in casa erano quarantamila. Pagavano un abbonamento di 75 lire. “Papà era del 1907, campione di sci dei giornalisti, gareggiava ai Littoriali e aveva vinto a Roccaraso la Coppa Mussolini. Era dentro quegli anni lì”. Dopo il 4-3 Emilio De Martino scrisse sul Corriere della Sera che “Roma eterna porta le insegne delle glorie presenti e passate della nostra razza" e su la Stampa il futuro ct mondiale Vittorio Pozzo parlò di una giornata di schietta italianità. “Mio padre - prosegue Sabelli Fioretti - scriveva di sci, atletica, ciclismo, non di calcio. Finì dentro l’esperimento radiofonico quasi per caso ma gli seccava che non gli fosse riconosciuto. Ci restava malissimo se qualcuno indicava in Niccolò Carosio il primo radiocronista italiano. Una sera, durante un quiz, un concorrente diede la solita risposta, Gerry Scotti lo corresse: sbagliato, disse, mi suggeriscono che sia stato un certo Sabelli Fioretti. Ecco, peccato che papà fosse già morto, altrimenti sarebbe stato felice di sentire certificata la verità, addirittura dalla televisione. Andava spesso ospite di Sergio Zavoli al Processo alla tappa. Ho fatto un Tour de France con lui. Mi portò a Reims quando Baldini vinse il Mondiale. Anch’io ho
cominciato come giornalista sportivo e adoro la radio. Ma odio il calcio. L’ultima volta che
sono stato in uno stadio avevo 18 anni e adesso ne ho 73”.

Carosio sarebbe arrivato nel 1933, a sancire la supremazia dell’ascolto sulla visione, perché “si sogna, con gli occhi fissi nel vuoto o chiusi, si lotta per rappresentare, nella propria testa, la terza dimensione, popolandola di particolari che rendano verosimile la realtà. L’orecchio, che è l’organo dell’immaginazione per eccellenza, vede e intuisce cose che gli occhi non possono percepire” (Vladimir Dimitrijević, La vita è un pallone rotondo). “Ma secondo me - eccepisce Sabelli Fioretti - il calcio in radio non ha alcun fascino. È bello in televisione, e poi allo stadio. Ai radioascoltatori piacevano le voci mitiche del calcio, non il gioco in sé; piaceva il lessico di Ciotti, il suo Scusa Ameri”. Un dualismo, una rivalità, fino a quella domenica del ‘75 in cui ad Ameri scappò un insulto fuori onda. Negli anni d’oro, Tutto il calcio minuto per minuto faceva 30 milioni di ascoltatori. Al telefono, Emanuele Giacoia ha nella voce la freschezza dei suoi 89 anni. Era il cantore del Catanzaro di Palanca, o del Napoli di Savoldi e dell’Avellino di Juary. “Bruno Vespa mi chiamava The Voice. Qualcuno scrisse che ero come un Amedeo Nazzari in divisa da carabiniere: proclamavo la verità dei fatti. Carosio veniva in vacanza a Soverato e passavamo ore a parlare di calcio. Quando Concetto Lo Bello capitava a Catanzaro prometteva: la prossima volta facciamo un’intervista, e invece non l’abbiamo fatta mai. Con Sandro Ciotti dividevamo il vizio per le sigarette americane. Si era fissato che gli ricordavo Quasimodo. All’epoca non esisteva ancora una Facoltà di Medicina in Calabria, gli studenti partivano per andare a studiare a Napoli, a Bologna, a Pisa. Oggi sono medici sessantenni, e quando li incontro dicono che quelle radiocronache erano un legame con la terra che avevano lasciato. Ecco cos’è stato il nostro programma. Oggi con le pay tv è diverso, ma i cronisti giovani sono più bravi di noi. Io la domenica tolgo l’audio e ascolto loro”.

Dopo 58 anni Tutto il calcio sta per aprirsi a una novità: il pubblico in studio. Riccardo Cucchi ha chiuso dodici mesi fa, portando voce e volto alla Domenica Sportiva. “Ho imparato dalla radio che esisteva un campo di calcio. Mio padre mi portò a vedere Lazio-Vicenza, ma io la avevo già immaginata molte volte prima. Quando nel ‘79 la Rai bandì un concorso, partecipai quasi per gioco. Ero laureato in Lettere, facevo l’insegnante. Passai lo scritto e all’orale mi trovai davanti Sergio Zavoli, che mi domandò cosa mi sarebbe piaciuto fare se mi avessero preso. Radiocronista, risposi. E lui: allora mi faccia sentire una partita. Non poteva immaginare che da bambino ne avevo registrate centinaia sui nastri Geloso. Mi inventai uno Juventus-Milan e mi presero. Mi diedero un maestro di dizione. Era Arnoldo Foà. Questa è la radio. Il suo fascino vive tuttora. Pensavamo che le tv ci avrebbero distrutto ma nessuno può guardare partite dal venerdì al lunedì sera senza alzarsi mai dal divano. Per questo il calcio alla radio non finirà mai”. Novant’anni dopo una battaglia navale.

(Il Venerdì, 15 marzo 2018)

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