Come nel più imbelle dei tentativi per sfilarsi da una situazione molesta, sei dei quattordici ragazzi che a ottobre giocavano a fare i fascisti dentro lo stadio Olimpico attaccando gli adesivi con il volto di Anna Frank in maglia giallorossa — credendo di insultare così ebrei e romanisti — si sono presentati in Procura con un'ultima grande idea per evitare il processo e conquistare l'archiviazione. "Non sapevo si trattasse di lei. Pensavo fosse Mariangela, la figlia di Fantozzi". Un ulteriore salto di qualità della spietatezza, il passaggio dalla banalizzazione all'irrisione. Per sostenere la tesi dello sfottò e smontare l'accusa di istigazione all'odio razziale, dopo la chiusura delle indagini, gli ultrà si sono presentati con le tesi più beffarde: scusate, non era forse una comune bambina?
A questo punto, qualunque persona disposta a stare al mondo nel rispetto delle regole e della convivenza civile non sa se preferire l'ipotesi che si tratti di ignoranza manifesta o di una strategia difensiva in vista di un probabile rinvio a giudizio. Più e più volte la maniera patologica di vivere il calcio ha mostrato un abisso di squallore, da una parte, e la totale incapacità delle istituzioni sportive a fronteggiare per davvero le discriminazioni, dall'altra. La stessa genesi dell'episodio, sei mesi fa, trovò un clima favorevole di arguzia, furbizia e accondiscendenza: gli ultrà della Lazio si trovavano quel giorno nella curva della Roma con gli adesivi in tasca perché il loro presidente Lotito aveva aggirato così — e nel silenzio generale — una squalifica (per razzismo) che lo obbligava a tener chiusa la sua.
L'Italia si indignò, il calcio impose ai capitani delle squadre di portare in campo il Diario di Anna, il tribunale della federazione bocciò la richiesta di una squalifica perché per venti persone non si può punire un club o un'intera comunità, neppure secondo il principio sportivo della responsabilità oggettiva. Tutto sempre uguale. Il solito circolo che parte con le fiamme e finisce con l'estintore.
Qui però non si tratta più solo di tirar fuori dalla fondina lo sdegno ormai stanco e spuntato contro la degenerazione del tifo e il suo uso politico. Qui c'è da chiedersi come sia possibile che qualche avvocato, nella patria del diritto, abbia escogitato una simile mediocrità. Il giurista è "il pronto soccorso delle ambasce umane", come sosteneva Piero Calamandrei, e davvero serve una smisurata cultura per scendere nei meandri dell'animo umano, da Cesare Beccaria a Paolo Villaggio. Ma un qualunque manuale di diritto avverte che la sobrietà della difesa non è solo una questione di stile ma una necessità, finanche per la strategia della difesa stessa, affinché siano considerati poi efficaci, solidi e credibili i suoi argomenti.
Se di mezzo ci fosse stata la fantasia, Perry Mason avrebbe alzato una mano e avrebbe avvertito il suo cliente: "Le consiglio di non dire questa cosa al giudice. Per non aggravare la sua posizione". Ma Perry Mason non è reale, e lo spirito dei tempi è più incline a incoraggiare l'ipotesi che la versione Mariangela Fantozzi varchi la soglia di un'aula di una procura della Repubblica, riuscendo a far sembrare dei dilettanti in un colpo solo l'Azzeccagarbugli di Manzoni e il Bartolo di Mozart ("con un equivoco, con un sinonimo, qualche garbuglio si troverà"). Resterebbe da spiegare perché sugli adesivi di Mariangela Fantozzi ci fosse allora scritto: romanista ebreo.
(la Repubblica, 11 aprile 2018)
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