Dopo sette romanzi, un premio Strega e cinque film tratti da suoi lavori, a 51 anni Niccolò Ammaniti si è messo a indagare “le nostre reazioni dinanzi a un evento che va contro i principi della fisica. Cos’è che un miracolo suscita? Paura, curiosità, un allontanamento da sé. Sono partito da una domanda: cosa succederebbe alle persone se un oggetto di plastica di due chili e mezzo producesse 90 litri di sangue al giorno”. È il prodigio raccontato nella serie Il miracolo, dall’8 maggio su Sky Atlantic, otto episodi prodotti da Wildside con Arte e Kwaï, distribuiti da FreemantleMedia, da Ammaniti sceneggiato (con Francesca Manieri, Francesca Marciano e Stefano Bises) e per la prima volta da lui pure diretto (con Francesco Munzi e Lucio Pellegrini). Nel cast Guido Caprino, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Lorenza Indovina, Elena Lietti.
Un prodigio che avviene in clandestinità, dentro il bunker di un boss della ’ndrangheta, stanato e arrestato da un nucleo speciale, uomini in divisa che con una torcia in mano avanzano nel buio di un covo per scoprirlo colmo di sangue, inondato da un fiume di lacrime rosse uscito dagli occhi di una Madonna di plastica. Sempre in clandestinità si preoccupa di custodire l’evento pure lo Stato italiano - i Ris, il capo del governo - tenendo la Madonna sul fondo di una piscina vuota, a Roma, mentre una biologa procede con le analisi alla ricerca della verità. Sempre che “verità” sia una parola o un concetto compatibile con il mistero.
“Una Madonna che piange è catalizzatore. Spalanca dei dubbi. Ognuno” spiega Ammaniti “ha una risposta sua. C’è chi dopo due giorni si mostra indifferente al fenomeno e lo giudica irrilevante. C’è chi ne esce cambiato. A me una storia come questa ha posto domande come nessun’altra fra quelle scritte finora. Perció i personaggi sono astucci che di fronte alla Madonna si aprono per rivelare paure, tormenti, pulsioni”. La Madonna che piange è un fenomeno assai italiano. Nel libro Io lo chiamo cinematografo, Francesco Rosi raccontò di aver rinunciato nel 1967 a una scena per il film C’era una volta - Sofia Loren vestita con gli abiti della Madonna del villaggio, le candele dei fedeli che facevano lacrimare la statua - perché secondo il produttore Carlo Ponti “in America non avrebbero capito”.
Le statue di Maria iniziarono a piangere in massa sul finire del diciottesimo secolo, mentre la Campagna di Napoleone cambiava geografia e politica italiane. I territori della Chiesa erano minacciati: fra 1796 e 1797 sono segnalate ventisei statue o immagini della Madonna che muovono gli occhi, e una in lacrime davanti a cinquantamila persone. È più recente e universale lo scetticismo. Carl Hiaasen in Che fortuna (Baldini & Castoldi, 1997) descrive una cittadina della Florida in cui una statua piange a comando, attraverso una pompetta a pedale, per portare guadagni al suo proprietario, che non resiste alla tentazione di aggiungere della vernice rossa. “Madonne che piangono in Italia ce ne sono, e tante”, spiega Ammaniti, “ma non mi sono ispirato a nessuna di loro. Penso di avere avuto grande rispetto per chi crede, per le persone di fede, per gli eventi inspiegabili e per i miracoli. Una delle domande che mi sono posto riguardava il sangue. Quando da bambini ci tagliamo, scopriamo questa essenza fluida nel corpo che ci tiene in piedi. Ma il sangue degli altri impressiona, ci scompone. Il sangue ha un odore, un colore forte. Il cinema sa renderlo meglio della letteratura. Il miracolo poteva essere un romanzo, ma come avrei raccontato il sangue? Avevo bisogno di mostrarlo, come quello nero in Psycho, mentre i libri horror piú riusciti ruotano intorno ai fantasmi. Non è splatter. È un sangue diverso, divino, che interroga e trasforma”.
Scrittore da trame, di pagine d’azione, grottesche e inquiete, dopo venticinque anni di narrativa, Ammaniti confessa un turbamento di fronte al potere del cinema, che gli ha reso visibile un miracolo solo immaginato. “La statua è stata tra le ultime cose a essere pronte sul set. Hanno fatto un lavoro enorme. L’emozione più grande”, racconta, “è stata entrare un giorno nella piscina e vedere che la Madonnina piangeva sangue sul serio. Il cinema rendeva vera questa storia strana”. Il cinema è miracolo per definizione. Cannes ha dato la Palma d'oro a Pialat (Sotto il sole di Satana) e De Sica (Miracolo a Milano). Irving Rapper (Vento di tempesta, 1959) mostrava una statua della Vergine scendere dall'altare e prendere il posto di una suora che rompeva i voti per amore di un soldato. Agnieszka Holland (Il terzo miracolo, 1999) mise un prete in crisi di fronte a una statua di marmo che lacrimava sangue nel cortile di un convento. Mentre Massimo Troisi, alla sua maniera, aveva in Ricomincio da tre un padre che attendeva ’o miracolo e la ricrescita di una mano amputata, e in Scusate il ritardo rifiutava di partecipare a un pellegrinaggio organizzato dal parroco al santuario della Madonna che piange: “Padre, se la Madonna rideva ci venivo”. Ma il cortocircuito perfetto - una statua religiosa in lacrime - è nel videoclip di una canzone pop del 1989, il pezzo era Like A Prayer e lo cantava Madonna.
Le lacrime sono segno di dolore, di partecipazione, di sottomissione. Sono simbolo di sacrificio o di intercessione. Nella serie tv di Ammaniti avranno un potere che nei suoi romanzi non si era manifestato: la capacità di cambiare gli adulti. “L’adolescenza ti plasma, è la fase in cui si diventa calciatori o scienziati. Potresti essere qualunque cosa prima, e all’improvviso diventi qualcun altro difficilmente modificabile. Questa esplosione di soprannaturale invece trasforma gli adulti, li trasporta in un altro mondo. Gli adolescenti dei miei romanzi hanno rapporti soprattutto con i padri, i personaggi della serie si rivolgono alle madri, sentendosi irrisolti. Alcune donne dicono di avvertire come estranei i propri figli appena nati. Mi ha sempre colpito molto. Un aspetto dell’adolescenza si ritrova nella maturità, quando bisogna badare ai propri genitori: un altro dei mutamenti della vita”.
I piccoli o grandi mutamenti quotidiani. Abbiamo un tale bisogno di miracoli che la parola ci accompagna con una frequenza incoerente con il significato: negli ultimi 30 anni è registrata 57mila volte sulle pagine di Repubblica e 36mila volte sul Corriere della sera. Come dire che ai quotidiani ne appaiono dai tre ai cinque al giorno, e che in Italia non c’è nulla di più comune di un miracolo. Per miracolo diciamo che ci si regge in piedi o che si è promossi a scuola. Il rapporto personale di Ammaniti con l’irrazionale è per sua definizione perverso. “Perverso perché dall’irrazionale parto per immaginarne il riflesso sulle persone. Alla vigilia del mio ultimo viaggio in aereo ho pensato: cosa accadrebbe se io avessi all’improvviso la sensazione che il mio aereo cadrà? Credo che in aereo non salirei, farei marcia indietro e tornerei il giorno dopo. Poi mi domando cosa accadrebbe se, una volta caduto per davvero l’aereo, il giorno dopo la polizia venisse a farmi domande sulla mia strana rinuncia al gate a imbarcarmi all’ultimo istante. Mi crederebbero a conoscenza della bomba scoppiata o del motore in avaria. È da questo rapporto con l’irrazionale che nascono le mie storie”.
Per molti anni, Ammaniti ha respinto le proposte dei produttori che gli chiedevano di dirigere le sue storie. “Mi spaventava. Preferivo lasciare a un regista l’adattamento dei romanzi, casomai affiancare lo sceneggiatore. Così avrei sempre potuto prendermi la libertà di non farmi piacere il film,
considerandolo un accessorio al libro. Stavolta ho lavorato per un anno come un impiegato, con orari fissi. Ho usato la tecnica dei miei romanzi scritti in terza persona. Personaggi che scorrono in capitoli paralleli. Se devo pensare a un modello, dico America oggi di Altman. Avevo la sensazione di dover procedere con una regia pulita, ordinata, movimenti lenti, poche soggettive, come se ci fosse stato un narratore esterno”. Una perdita di libertà, questo passaggio dalla scrittura personale a un’opera
collettiva. “È stata una scommessa altissima su di me: condividere una storia con altre persone, in compagnia delle quali cercare colore, carne, pasta, luoghi da dare a una fantasia. E mi domandavo: sarò in grado di relazionarmi, di coinvolgerli, di fargli vedere cose che esistono solo nella mia testa? Una costumista non deve solo leggere una sceneggiatura ed eseguire, ma si confronta, suggerisce,
propone, le va concessa la libertà di farlo. Ed è così con 150 persone diverse. È stata la cosa più complicata. Costruirmi un ambiente del genere ed essere credibile al suo interno. È un’esperienza che nel cinema associano all’idea di famiglia. Ma dopo tanti anni di lavoro in solitudine, all’inizio me ne sentivo incapace. Finché non si scopre che loro sanno bene cosa stai cercando, e che ciascuno costituisce lo spicchio di un progetto. Ho scoperto che non è facile parlare con gli attori per ottenere ciò che si vuole. Sono fatti di intuizioni o di certezze che magari cozzano con le tue. Ho fatto fatica ad accettare l’idea che si dovesse arrivare a una mediazione per costruire i personaggi. Ma oggi sento che solo questo cast poteva fare ciò che abbiamo fatto”.
Il miracolo ha lasciato ad Ammaniti una sensazione di prodigio anche nell’intimità. “Il cinema è uno strano oggetto. Una troupe fagocita le persone. Un giorno sei su viale Flaminio a inseguire una prostituta, il giorno dopo entri a Palazzo Chigi. È un mondo che dà dei corpi alle fantasie. Da spettatore non lo avevo capito. Era un aspetto che avevo sottovalutato. Mi chiedevo solo: come farò a convincerli, come farò a sopportarli? Io sono un ossessivo. Chiedo sforzi a me e agli altri. Ma sono finito in un gruppo che sapeva trasformare le cose. La fine delle riprese è stata triste. Ci vuole il cuore duro per fare il cinema, mettere in conto di separarsi dalle persone, perderle, dopo giorni e giorni di confidenza con loro. Arrendersi a una grazia che svanisce. Come per certi amori e certe amicizie adolescenziali dopo l’estate. Non so come si torna alla solitudine dello scrittore dentro una stanza. In questo momento sono diviso in due. Mi consola il pensiero che magari mi riprenderò la tranquillità dei miei tempi, i miei riti personali che sono saltati e che credevo mi mancassero”.
I piccoli o grandi mutamenti quotidiani. Abbiamo un tale bisogno di miracoli che la parola ci accompagna con una frequenza incoerente con il significato: negli ultimi 30 anni è registrata 57mila volte sulle pagine di Repubblica e 36mila volte sul Corriere della sera. Come dire che ai quotidiani ne appaiono dai tre ai cinque al giorno, e che in Italia non c’è nulla di più comune di un miracolo. Per miracolo diciamo che ci si regge in piedi o che si è promossi a scuola. Il rapporto personale di Ammaniti con l’irrazionale è per sua definizione perverso. “Perverso perché dall’irrazionale parto per immaginarne il riflesso sulle persone. Alla vigilia del mio ultimo viaggio in aereo ho pensato: cosa accadrebbe se io avessi all’improvviso la sensazione che il mio aereo cadrà? Credo che in aereo non salirei, farei marcia indietro e tornerei il giorno dopo. Poi mi domando cosa accadrebbe se, una volta caduto per davvero l’aereo, il giorno dopo la polizia venisse a farmi domande sulla mia strana rinuncia al gate a imbarcarmi all’ultimo istante. Mi crederebbero a conoscenza della bomba scoppiata o del motore in avaria. È da questo rapporto con l’irrazionale che nascono le mie storie”.
Per molti anni, Ammaniti ha respinto le proposte dei produttori che gli chiedevano di dirigere le sue storie. “Mi spaventava. Preferivo lasciare a un regista l’adattamento dei romanzi, casomai affiancare lo sceneggiatore. Così avrei sempre potuto prendermi la libertà di non farmi piacere il film,
considerandolo un accessorio al libro. Stavolta ho lavorato per un anno come un impiegato, con orari fissi. Ho usato la tecnica dei miei romanzi scritti in terza persona. Personaggi che scorrono in capitoli paralleli. Se devo pensare a un modello, dico America oggi di Altman. Avevo la sensazione di dover procedere con una regia pulita, ordinata, movimenti lenti, poche soggettive, come se ci fosse stato un narratore esterno”. Una perdita di libertà, questo passaggio dalla scrittura personale a un’opera
collettiva. “È stata una scommessa altissima su di me: condividere una storia con altre persone, in compagnia delle quali cercare colore, carne, pasta, luoghi da dare a una fantasia. E mi domandavo: sarò in grado di relazionarmi, di coinvolgerli, di fargli vedere cose che esistono solo nella mia testa? Una costumista non deve solo leggere una sceneggiatura ed eseguire, ma si confronta, suggerisce,
propone, le va concessa la libertà di farlo. Ed è così con 150 persone diverse. È stata la cosa più complicata. Costruirmi un ambiente del genere ed essere credibile al suo interno. È un’esperienza che nel cinema associano all’idea di famiglia. Ma dopo tanti anni di lavoro in solitudine, all’inizio me ne sentivo incapace. Finché non si scopre che loro sanno bene cosa stai cercando, e che ciascuno costituisce lo spicchio di un progetto. Ho scoperto che non è facile parlare con gli attori per ottenere ciò che si vuole. Sono fatti di intuizioni o di certezze che magari cozzano con le tue. Ho fatto fatica ad accettare l’idea che si dovesse arrivare a una mediazione per costruire i personaggi. Ma oggi sento che solo questo cast poteva fare ciò che abbiamo fatto”.
Il miracolo ha lasciato ad Ammaniti una sensazione di prodigio anche nell’intimità. “Il cinema è uno strano oggetto. Una troupe fagocita le persone. Un giorno sei su viale Flaminio a inseguire una prostituta, il giorno dopo entri a Palazzo Chigi. È un mondo che dà dei corpi alle fantasie. Da spettatore non lo avevo capito. Era un aspetto che avevo sottovalutato. Mi chiedevo solo: come farò a convincerli, come farò a sopportarli? Io sono un ossessivo. Chiedo sforzi a me e agli altri. Ma sono finito in un gruppo che sapeva trasformare le cose. La fine delle riprese è stata triste. Ci vuole il cuore duro per fare il cinema, mettere in conto di separarsi dalle persone, perderle, dopo giorni e giorni di confidenza con loro. Arrendersi a una grazia che svanisce. Come per certi amori e certe amicizie adolescenziali dopo l’estate. Non so come si torna alla solitudine dello scrittore dentro una stanza. In questo momento sono diviso in due. Mi consola il pensiero che magari mi riprenderò la tranquillità dei miei tempi, i miei riti personali che sono saltati e che credevo mi mancassero”.
(Il Venerdì, 20 aprile 2019)
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