lunedì 1 agosto 2016

Loretta Goggi e il diario di una sola pagina

Lo sguardo obliquo di due Telegatti da una mensola. Cappelli, libri, foto alle pareti. Loretta Goggi si china su un tavolino al centro del suo studio ai Parioli e fruga nella collezione di copertine. «Playboy devo averlo a casa. È del 1979. Non nacque per caso. Non andai a propormi, ma quando chiamarono non rifiutai. Alcuni amici erano impazziti per un numero dedicato in precedenza a Nastassja Kinski. Fu una specie di sfida. Volevo dimostrare che potevo starci anch’io, pur senza l’immagine della “bona”. Ero appena tornata dal mare, la facemmo con un tanga e dei veli: i patti con la redazione erano questi. Non sono mai stata una che ammicca al mistero. Se mi frequenti, dopo un mese di me sai tutto. Non ero la ragazza della porta accanto, casomai ero la
signora del piano di sopra».

Loretta Goggi è un portagioie che contiene sfumature. È l’ex ragazzina timida della borghesia romana e la regina del sabato sera più amato di tutti i tempi nella tv italiana: Fantastico 1979, venticinque milioni di spettatori di media. È stata interprete di Shakespeare e doppiatrice del canarino Titti. «Dovrebbe essere la norma per un’attrice: scoprire d’avere più gradazioni. Non sapevo che Titti fosse maschio, non mi interessava, per me era asessuato. Anche per il doppiaggio di Roz in Monster&Co., al provino gli americani mi chiesero di recitare con la voce maschile di una donna». Ha messo le sue tonalità nel libro Mille donne in me (Piemme), tutte le donne che avrebbe voluto essere, tracce, modelli, aspirazioni. «Ero molto introversa da ragazzina, alle feste facevo tappezzeria. Mi sentivo un Fantozzi al femminile. Mi piaceva lavorare alla radio proprio perché così non mi si vedeva. Se non fosse arrivata La Freccia Nera, credo che mi sarei iscritta a Lingue per fare l’interprete. Come tutti i timidi cercavo qualcuno interessato a scoprirmi. Ero molto responsabile già alle scuole medie. Lavoravo e studiavo a distanza. Un’amica mi spediva in raccomandata i compiti sui set, mi aiutava in matematica e mi permetteva di essere sulla scena quello che nella vita non riuscivo a diventare: priva di condizionamenti. Il mondo dello spettacolo è impagabile per chi nasce con una gabbia attorno e non sa come aprirla. Era la via per uscire dal guscio. Non volevo diventare qualcuno, volevo ricucirmi a me stessa. Ho cercato questa compagna non so per quanto tempo, per dirle grazie: sono stata sotto casa sua ma ricordavo male il numero civico. Ci siamo ritrovate quattro anni fa».

I Goggi vivevano non distante da piazza Navona. «Mia sorella Daniela e io siamo nate in casa. A Natale si stava in venti a tavola dai nonni. Cucinava mia madre, una donna bellissima. Una sosia di Gene Tierney. Capelli neri, labbra carnose, occhi luminosi. Era lei a riportarmi alla realtà quando mi coglieva con la testa fra le nuvole. A Beatri’ — diceva — guarda che in camera tua ce sta ancora il letto da sistema’. Mio padre era vice ispettore all’ufficio del personale della Camera. Mi portava spesso in Transatlantico. Ricordo un parcheggio per le auto meraviglioso, il senso di austerità e severità così naturale per lui e per l’Italia d’allora. Starò parlando del ’55. Usciva sempre in giacca, camicia e cravatta, solo il sabato si liberava: metteva il jeans, giocava a pallone, andava a cavallo. Se avesse potuto seguire le sue passioni, avrebbe fatto il chitarrista, ma il posto fisso vinse. Mi ha trasmesso il suo amore, a casa avevamo il piano, mi ha fatto studiare. Il mio nome è Loretta a causa del suo debole per Loretta Young, mia madre avrebbe voluto chiamarmi Michela. Da ragazza avrò incontrato sì e no tre Lorette in tutto, oggi è più comune, qualcuno dice pure per colpa mia. C’è stato a un certo punto un boom di Lorette, di Romine, poi di Lorelle».

Sfogliando i giornali degli anni Settanta si scopre una rivalità Goggi-Carrà che adesso Loretta nega. «Non poteva esistere. Facevo Canzonissima ma avevo ventidue anni. Lei era sexy e metteva le paillettes, io non avevo una costumista, non volevo scendere le scale negli spettacoli, mi piaceva ballare ma anche recitare cantare condurre. C’era grande differenza fra noi. Non so se ci fosse gelosia, non ce lo siamo mai domandate. Io mi rivedo in Paola Cortellesi, in Virginia Raffaele. Se potessi rinascere, farei la ballerina classica. Adoro chi è padrona di ogni millimetro del suo corpo». Quel corpo che Loretta Goggi ha trattato a lungo come un assillo. «Le etichette mi condizionavano. Per me c’era sempre la parte di un’orfana, di una povera, di una malaticcia. Bianca, cadaverica, le occhiaie. In camera avevo un disegno della Valentina di Crepax. Lei era il territorio irraggiungibile, la vera ragazza degli anni Settanta. Libera nei confronti del sesso, senza paure, disinibita. Ogni volta che aprivo lo sportello dell’armadio, me la trovavo riflessa nello specchio, alle mie spalle, e allora di nascosto provavo a mettermi in posa come lei. Pesavo quarantasei chili. Non mi sono mai accorta di poter piacere. Un giorno arriva Mita Medici, nel pieno del suo splendore, e mi fa: quest’estate ce ne andiamo in vacanza assieme, io tu e tua sorella Daniela. Non mi pareva vero. Disse: andiamo dove ci porta il vento. Con l’autostop. Incominciai a immaginare avventure splendide. Mia madre ci fermò: siete fuori di testa. Era terrorizzata. È rimasto un sogno, un grande rimpianto».


Era la Loretta che come tante altre ragazze consegnava a un diario le sue fantasie. Solo che lei sapeva serrarle in modo invincibile. «Scrivevo che mi piacevano Cary Grant e Rock Hudson, cose così, ingenue, eppure mi parevano inconfessabili. Avevo paura che mia madre le scoprisse. Perciò incollavo le pagine, una sull’altra. Il diario è diventato un solo blocco rigido, un unico foglio spesso, dopo la copertina con i fiori d’arancio, dove si riesce a leggere solo la dedica della zia. Lo conservo ancora ». L’ex ragazza che voleva nascondersi è diventata un’icona gay. «Ho chiesto molte volte perché: a parte le pettinature con cui ho rivaleggiato con David Bowie e Lady Gaga. Credo che di me siano piaciute prima l’ironia e poi la fragilità con cui confesso in pubblico il mio disagio di vivere dopo la morte di Gianni, mio marito».


Gianni Brezza, primo ballerino conosciuto a Fantastico. Una storia d’amore come una su mille. «Il primo giorno che ci incontrammo, aveva degli hot pants sdruciti e una canotta da basket. Abbronzatissimo. Si stava allacciando le scarpe da tennis con una gamba sollevata e poggiata alla sbarra, in palestra. Pensai che sarebbe stato impossibile passare tre mesi con quello là. Se adesso fosse qui, lui racconterebbe che invece rimasi colpita subito e che il mio occhio sinistro si fece più piccolo. Finse di dover andare fuori per il weekend con una ragazza, faceva l’uomo tormentato per questa relazione, in realtà fingeva, voleva capire la mia reazione. Io gli risposi candida che sarei andata in campagna a raccogliere funghi con Pace, Panzeri e Pilat. Il lunedì gli domandai: com’è andata con la tipa? Lui neppure si ricordava della bugia. Una sera usciamo e in macchina gli confesso che ancora non ho chiuso una storia. Lui frena, apre lo sportello e mi fa scendere: una donna, dice, la voglio tutta per me. Mi lascia di notte, da sola, in centro a Milano. Capii che mi piaceva all’uscita dal cinema, avevamo visto Manhattan di Woody Allen. Mi aveva invitato e non sapeva se sarei andata. Io ero andata ma non sapevo se lo avrei trovato. Così tutt’e due all’appuntamento ci nascondemmo, per non fare la figura di essere stati mollati. Ci urtammo di schiena, ed è cominciata così. Ci baciammo in scena durante le prove di un balletto. Disse: se non ti stacchi tu, perché dovrei staccarmi io? Andammo a vivere insieme, avevo ventotto anni e per la prima volta i miei non mi accompagnavano da qualche parte. Non aveva bisogno di una donna sexy, ma di una donna vera. Mi manca, mi manca ogni giorno. Perciò litigo con le sue foto».

(da Repubblica del 31 luglio 2016)

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