giovedì 11 agosto 2016

I centesimi di Federica Pellegrini

Provate a dire a voce alta la parola "cinquemila".
Cinquemila.
È passato un secondo.
Prendete questa briciola di tempo e dividetela a metà. È lo spazio che passa tra la Federica Pellegrini di Rio e quella che avremmo voluto vedere: la Federica di giugno che al Sette Colli di Roma aveva nuotato 200 metri da medaglia olimpica.
Duecento metri, mezzo secondo. Anzi: per il bronzo sarebbe bastato nuotare dieci centesimi in meno. Non esiste una parola che si pronuncia in dieci centesimi di secondo, si può solo provare a immaginare il classico battito di ciglia. Di questo parliamo quando parliamo di Federica Pellegrini e di molti altri ragazzi come lei, nel nuoto o nell'atletica. Quarantuno centesimi di secondo (dite: "cinque") hanno diviso il campione olimpico dei 200 rana dal sesto classificato. Primo o sesto. Un mondo chiuso dentro un nulla.
Ragazzi che conoscono meglio di noi, giudici asciutti, la vita atroce dell'agonismo, un baco che si infila dentro la testa e ti accompagna ogni istante, ovunque, ti insegue, ti perseguita, ti consuma. Nel caso di Federica per tutta la vita. È già accanto a te a quattordici anni, quando i compagni di classe vanno in gita, al campo scuola, e tu rimani a casa perché l'allenatore dice che alle tre ti aspetta in piscina, che devi andare a nuotare. Le sere al pub, in pizzeria, in discoteca, una partita di calcetto, la settimana bianca, il motorino meglio di no: quante cose proibite per limare mezzo secondo, certe volte meno. Gli altri d'estate vanno al mare, vanno a studiare inglese all'estero, e tu sei là, certe volte senza neppure sapere perché, con la testa sotto l'acqua, da solo - da soli si sta sempre nell'acqua - a contare silenziosamente, a ripetersi l'alfabeto per rendere la fatica sopportabile; a farsi liste, a cercare riferimenti ovunque, nelle lancette colorate degli orologioni a bordo vasca o nelle bandierine sospese a mezz'aria e piazzate a 15 metri dal blocco di partenza o di distanza dalla virata. Certe volte ti canti una canzone, certe volte ti immagini in gara, certe volte vorresti svuotare la testa.
A cosa pensi quando nuoti? Provate a chiederlo a uno che sta in acqua tutti i giorni, ore e ore al giorno, mentre noi guardiamo da fuori, e ci pare facile, e ci pare ovvio, e ci pare niente. Risponderà sempre qualcosa che indossa un velo di tristezza.
Il baco è ancora lì pure a ventotto anni, nei giorni in cui le altre diventano mamme e tu devi stare due volte attenta quando fai sesso, te lo impone il tuo mondo senza parlarne, con un accenno, una battuta, come se non bastassero i dolori del ciclo che ti porti in allenamento e sono un peso, mentre del mezzo secondo, o dei dieci centesimi, noi ci accorgiamo una volta ogni quattro anni. Noi, così distanti da una vita faticosa accettata per passione, noi ammalati di medaglismo. Non possiamo essere noi a dire quando è il caso di smettere. Lasciamo almeno decidere a chi una vita così l'ha scelta qual è il momento giusto per uscirne, l'attimo in cui prendere la prima a destra, asciugarsi, mettere le scarpe e venire a bere una birra al bar, l'attimo giusto per appassionarsi ad altro, o per annoiarsi come tutti quanti noi.

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