giovedì 4 agosto 2016

Cosa succede al Brasile nel calcio

Il nome è lo stesso, la maglia non è cambiata, ma dire Brasile oggi significa parlare di un guscio vuoto, di uno scrigno pieno di niente. I re del pallone non sanno più giocare. Divertivano e vincevano, ora perdono e sono pure noiosi. Sono nel calcio quasi da estranei, respinti, sono gli antichi coloni cacciati dalla terra conquistata. Non solo hanno smesso di incantare e regalare stupore. Hanno smesso finanche di produrre normalità. È come svegliarsi una mattina in Svizzera e scoprire che hanno chiuso le fabbriche di cioccolata.


L’ultima Coppa America – l’edizione del centenario – è stata la terza di fila senza il Brasile in semifinale, soprattutto è stata la prima dal 1987 in cui il Paese cinque volte campione del mondo non sia riuscito neppure a passare il girone, per restare fra le prime otto. Che tutto ciò sia accaduto per via di un gol irregolare, segnato dai peruviani con il tocco di un braccio ignorato dall’arbitro, non è una scusante ma una spia: è il segno che i torti di solito destinati ai piccoli possono capitare pure ai grandi, quando grandi ormai non si è più.

È l’ultima traccia di uno scivolamento verso il basso, cominciato da tempo ma tenuto nascosto fino alle cinque di pomeriggio dell’otto luglio 2014, stadio di Belo Horizonte, semifinale dei campionati mondiali, Brasile 1 - Germania 7. Shock, vergogna, trauma. Cacciarono il commissario tecnico Scolari due anni fa, lo stesso ora è accaduto a Dunga, a modo suo stoico nell’uscire di scena lasciando il posto a Tite. Ha detto: «Temo solo una cosa: la morte». Il Brasile teme invece l’agonia. «Servirà molto tempo per uscirne» avverte il presidente della federcalcio Del Nero, un avvocato di nome Marco Polo, erede della poltrona che fu di José Maria Marín, arrestato a maggio 2015 durante la retata del Fbi a Zurigo fra i dirigenti della Fifa. Corruzione e tangenti. Uscirono in manette dall’hotel in cui stavano tenendo il loro congresso, coperti da un lenzuolo, per sfuggire ai fotografi. Marín era già famoso per aver dimenticato di consegnare una medaglia d’oro al portiere del Corinthians durante la premiazione di un torneo giovanile. La tv lo aveva ripreso proprio mentre – oplà – la faceva scivolare con stile in una delle proprie tasche. Quando gliene chiesero conto, rispose con una certa irritazione che si era trattato di uno scherzo.

Altri scandali ha dovuto ingoiare in politica il Brasile, dall’Operazione Autolavaggio che ha sporcato il mito di Lula all’impeachment verso Dilma Roussef, sospesa dalla carica di presidente della Repubblica con l’accusa di aver truccato i dati sul deficit in bilancio. La decadenza del calcio è il sintomo, non la malattia. Il 7-1 subito dalla Germania è stato la traduzione simbolica in termini calcistici della fine del boom economico. Alle manifestazioni di piazza contro il governo, la gente mette la maglia della Nazionale. Il verde e l’oro. La disfatta nell’ultima Coppa America è una traccia ancora più atroce, perché nessuno sa bene cosa stia annunciando. Eduardo Gonçalves de Andrade detto Tostão, uno dei cinque numeri dieci che il Brasile mandò contemporaneamente in campo per vincere a Mexico ’70, ha scritto sulla Folha di São Paulo: «Non sappiamo più chi siamo né dove andiamo». Di questo passo non ai Mondiali. Se le qualificazioni per quelli del 2018 in Russia finissero oggi, il Brasile sarebbe fuori. Passano le prime cinque e il Gigante Stanco è solo sesto. Un Mondiale senza il Brasile in ottantasei anni di storia del calcio non c’è stato mai.

Neymar è la sola stella rimasta al Paese che tutti insieme partorì Didi Vavà Pelé e Garrincha. Le classifiche del Pallone d’oro, il premio al miglior calciatore, raccontano bene cosa sta succedendo. Neymar è stato il solo in questi ultimi dieci anni a piazzarsi fra i primi tre. L’ultimo a vincere è stato Kakà nel 2007. In mezzo hanno raccolto qualche voto sparso Thiago Silva, Dani Alves, Maicon e Julio Cesar. Tre difensori e un portiere. Gli attaccanti e i centrocampisti offensivi sono spariti dalla scena. Passano in fretta dalla definizione di speranza (l’ultima è Gabriel Jesus del Palmeiras) a quella di meteora. Il Brasile ha perso la sua via quando si è messo a copiare l’Europa abbandonando il jogo bonito, con il quale sì perdeva il Mundial ’82 al cospetto di Rossi e Bearzot, ma almeno divertiva il mondo – Zico Falcão Socrates Cerezo – e poi vedeva nascere Romário, Ronaldo e Ronaldinho. L’idea del fuoriclasse coincideva col Brasile, la commedia italiana ha costruito al cinema le sue parodie con Paulo Roberto Cotechiño di Alvaro Vitali e l’Aristoteles di Lino Banfi. Ma il vero Brasile ha perso prima la vocazione offensiva, e a cascata l’allegria, l’abilità tecnica, il suo stile, la sua anima, vale a dire tutto.

Antonio Careca, centravanti al Mundial ‘86 e poi compagno di Maradona a Napoli, sostiene che alla generazione attuale «manca l’idea che la partita dura 90 minuti, fanno i fenomeni per dieci e questo gli basta. Dovebbero essere più aggressivi». C’è un intero sistema da rimettere in piedi per restituire fecondità al talento. Levir Culpi, allenatore del Fluminense, reduce da un’esperienza a Osaka, dice: «La gente crede che io sia andato a insegnare calcio ai giapponesi, in realtà sono tornato avendo imparato delle cose. È il calcio brasiliano a essere antiquato». La maggior parte dei club è indebitata con le banche. I giovani fuggono all’estero appena possono. Il prodotto interno lordo del Paese è calato del 4 percento, l’inflazione è salita al 9. Nell’ultimo anno il dollaro è cresciuto sul real con il più alto incremento dal 2002. Fra 2011 e 2013 ancora si poteva assistere al ritorno nei club di casa di calciatori dalla Russia e dai campionati arabi. Solo quattro anni fa l’economia cresceva del 4 percento, ultimo colpo di coda di un periodo in cui il Brasile poteva permettersi di candidarsi e ottenere l’organizzazione sia dei Mondiali di calcio sia delle Olimpiadi, unica nazione negli ultimi venti anni, quando cioè esigenze e bilanci dello sport sono stati stravolti dai soldi dei diritti tv. Oggi il Brasile vede partire i suoi giovani migliori non solo per l’Europa ma anche per la Cina, il mercato dei nuovi ricchi.

"Mi dia il pallone", disse il ragazzino.

Guardai la piccola figura, ritta a un paio di metri da me.
Avvertii qualcosa di familiare in quel bambino:
era la stessa sensazione che avevo provato incontrando lo zingaro.
Il ragazzino insistette più volte e poi,
vedendo che non rispondevo, si chinò e afferrò una pietra.
"Mi restituisca il pallone, altrimenti le tiro questo sasso", disse.
(Paulo Coelho, Il cammino di Santiago, Bompiani, 1997)

Jorge Amado non scrisse mai di calcio, convinto che «lo sport possiede una forza che la letteratura non è in grado di raccontare», ma lo amava in quanto «sogno della libertà, attitudine alla festa, fede nel domani, ottimismo». Una partita di calcio non fa dimenticare i morti ammazzati in strada, la droga, la prostituzione minorile, le persone che a milioni devono sopravvivere alla fame prima che il tramonto le mandi a dormire. «Però si sopporta meglio» diceva, era il ’94 e la Nazionale stava diventando campione del mondo, un mese dopo il lutto nazionale per la morte di Ayrton Senna, l’uomo che il Brasile ha avvicinato di più all’idea di dio.

"Dobbiamo difendere i valori, ci resta poco altro. La tolleranza, la democrazia.

E lo sport aiuta, fortifica perché unisce.
Forse è il migliore strumento al mondo per combattere il razzismo:
mescolare le razze è l'unica medicina". (Jorge Amado)

Bruno Barba, antropologo autore di Calciologia (Mimesis), ha nel Brasile il suo campo di ricerca. Dice: «Le squadre vincenti di questi ultimi anni – Germania, Francia, Belgio, lo stesso Portogallo – sono quelle che hanno interpretato meglio il meticciato culturale. Il Brasile ne era un esempio eclatante e si vede superato. Se in base alla lettura della sinistra lulista, 40 milioni di brasiliani sono usciti da un contesto di povertà estrema, ingrossando la massa borghese, qualcosa si è prosciugato nel bacino in cui il calcio andava a pescare i suoi talenti, i ragazzi delle favelas. È quello un popolo che spesso si autocompiace della propria allegria, di un’euforia ingenua, immatura, ma si abbandona alla depressione se le cose vanno male. Servirebbe più autoironia. Come dimostrato dall’Italia agli Europei, quando tutto pare una tragedia, il calcio si diverte a spiazzarti». Va a finire che fra un mese Neymar segna dieci gol e il Brasile vince le Olimpiadi.

(uscito il 22 luglio sul Venerdì)

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