Dei cento e più modi di perdere uno scudetto. Ovvero come si rimane fedeli a se stessi in un rovescio. Il Napoli, per esempio. È così che scivola un tricolore dalle mani di chi per anni non l'ha afferrato mai: con questo condensato di disastro ira e farsa, per colpa di un gol uscito da una foresta di segni. Le maglie bianconere di fronte. Una porta vuota. Una cosa che comincia come gollonzo e finisce come prodezza: la rovesciata di un portoghese - Fernandes - che ha segnato il 40% dei gol in carriera contro di te (nell'antico calcio da cortile e marciapiedi è uno che "caccia la scienza"). Giunge peraltro dopo una scarpata del tuo portiere e con l'assist di un calciatore di tua proprietà, Zapata - a Udine in prestito - al quale non sei neppure riuscito a far venire la febbre il giorno prima della partita. Nessuno stupore perciò, tutto è in linea con le altre volte, le antiche sconfitte, lo scudetto evaporato nel '74 per un gol dell'ex (Altafini, Juve- Napoli), quello del 1981 per un autogol contro l'ultima in classifica (Napoli- Perugia), quello del 1988, sorpasso alla terzultima giornata (Napoli-Milan). È una questione di censo. L'aristocrazia del calcio italiano sa perdere i suoi scudetti con solennità ("la fatal Verona"), in modo lirico ("il 5 maggio"), facendone un caso politico (la monetina di Alemão), tecnologico (il gol di Muntari), o addirittura fra i tuoni dell'Apocalisse, che può manifestarsi sotto forma di diluvio primaverile a Perugia nel 2000 o di intercettazione telefonica nel 2006. I poveri-cristi no, si fermano prima, molto prima, sulle soglie della banalità per un fuorigioco (Turone, Roma, 1980), un gol annullato (Daniel Bertoni, Fiorentina, 1982) o un rigore non dato (Salas, Lazio, 1999). Così va a finire col complotto e i poteri forti.
Ti chiami Napoli e già vivi con un complesso d'inferiorità addosso molto prima che l'inferiorità si manifesti per davvero. Te la giochi contro una squadra che vince 20 partite su 21. Una squadra che viene da 4 scudetti di fila, più una finale di Champions. Chi sia più forte è chiaro. Chi sia favorito lo è di più. Chi sia più bravo nei "mind games" non ne parliamo nemmeno. Un mondo così puoi batterlo solo se lo spaventi, non se ne sei spaventato. Un mondo così lo spaventi se gli sventoli in faccia la tua libertà - che il calcio dei commercialisti ha perduto nell'infilare i gol dentro fogli Excel - e dunque la gioia, la voglia di mandare un pallone in porta senza nessun altro utile che il boato di una folla. Italo Calvino la chiamava sottrazione di peso. Il Napoli l'ha operata per due terzi del suo cammino. L'allegria. La leggerezza. Erano la sua forza, la sua novità e la sua anomalia. Le ha buttate via e regalate alla Juve quando s'è messo a inseguire i fantasmi. Per dire dell'abisso fra le parti: in questo ambiente che non ama chi fa domande, su una sponda c'è una macchina che nel mondo dei media siede nei cda, sull'altra chi litiga con le tv per un titolo di calciomercato. Da un lato c'è chi si logora per lo scudetto, dall'altro chi lo scudetto quasi vorrebbe vederlo abolito per non giocare mai più contro tutti "i Napoli" d'Italia, e misurarsi sempre e soltanto con i Manchester e i Real Madrid. È una rivalità unilaterale, e dunque inesistente. La rovesciata di Fernandes ci dice allora che se in un videogame vuoi salire al livello più alto, non devi aspettarti che il drago venga ad aprirti le porte del castello.
(uscito su Repubblica il 5 aprile 2016)
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