Colpo di testa di Borel contro la Roma (13 maggio 1935)
L'altra cinquina consecutiva della Juve arrivò il 2 giugno del '35. Dalla quinta giornata fino alla diciottesima era stata sempre all'inseguimento. Capolista: la Fiorentina. Aggancio alla diciannovesima, primato solitario alla ventiduesima, sorpasso dell'Ambrosiana la domenica dopo, nuovo aggancio, nuovo sorpasso, un'altra volta appaiate alla terzultima e alla penultima. Il 2 giugno '45 chiusura per l'Ambrosiana sul campo della Lazio (come poi il 5 maggio 2002) e per la Juventus sul campo della Fiorentina (come stavolta). Una volata in cui a Milano si sentivano favoriti, casomai si parlava di spareggio. Invece la Juve vinse 1-0 (Ferrari a nove minuti dalla fine), l'Ambrosiana perse 4-2. prendendo tre gol da Piola, di cui due negli ultimi otto minuti. Il Littoriale scrisse che a Firenze era stato disposto un collegamento telefonico per conoscere in tempo reale il risultato di Roma. A Roma no. A Roma giocavano al buio. Fu la chiusura di un ciclo che la Juve aveva affidato a Carlo Carcano, allontanato però dalla panchina all'ottava giornata, con la Juve seconda a -2. La Stampa scrisse il 10 dicembre del '34, otto giorni dopo lo 0-0 con la Triestina e sei prima della sconfitta per 2-0 a Bologna: "Carcano ha lasciato in questi giorni la carica di allenatore della Juventus". Stop. Avrebbe poi raccontato Brera in Storia critica del calcio italiano di insofferenza del club e del governo verso la vita privata dell'allenatore: "Vennero sospettati di pederastia e denunciati da dirigenti gelosi di Borel lo stesso Carletto Carcano, l'allenatore, un paio di consiglieri, Varglien I e perfino, ironia, Luigi Monti". Quella Juve aveva sostituito il portiere Combi con Valinasso, aveva giocatori avanti negli anni (Monti 34, Orsi 34, Caligaris 34, Rosetta 33) e s'imbatté in molti infortuni durante l'anno. Ho raccolto qui cosa si scrisse di quella Juve in quei giorni, e due analisi storiche successive di Brera e Sconcerti.
Vittorio Pozzo, la Stampa, 4 giugno 1935: "Non è più un fatto nuovo che la Juventus vinca un campionato. Fu un fatto nuovo di zecca nel 1905, quando interruppe la serie di vittorie del Genoa e del Milan, puntò fuori il capo in atteggiamento timido e dimesso, ed ottenuta l’affermazione si affrettò a rintanarsi. Lo fu ancora ventun anni dopo, nel 1926, quando mise d’accordo i due fieri antagonisti del momento, Genoa e Bologna, sfondò la cintura monopolistica che essi tenevano in fatto di onori, e si impose. Dal 1931 non lo è più. Ché da allora, la nostra grande manifestazione calcistica più non conosce se non un vincitore. Cinque vittorie consecutive. Non le ha mai ottenuto nessuno. (…) Il fatto nuovo sta nel modo in cui venne ottenuta la vittoria quest’anno. Vittoria che ha del miracoloso, dell’incredibile per coloro che conoscono le vere reali condizioni in cui si è venuta a trovare la squadra bianconera. Condizioni disagevoli all’inizio, che non han fatto altro che aggravarsi e complicarsi di mano in mano che si andava avanti. (…) Acciacchi, amarezze, contrattempi di ogni tipo. A chi la osserva da vicino, la squadra bianconera fa l’effetto di un invalido che si trascini più che di un atleta che lotti. Sul finir della stagione giuoca male. Il giuoco costruttivo è in essa quasi scomparso: l’attacco arranca e fa quel che può, non si impone più. Eppur, nel bel mezzo del grigiore salta fuori di tanto in tanto una giornata che lascia di stucco per la sua limpidezza, per il linguaggio che la squadra torna a parlare. Come memore del passato, essa sfodera risorse che portano il giuoco ad un livello di praticità a cui l’avversario non può giungere. Ne resta come soggiogato, l’avversario. Sono le giornate che salvano la situazione e portano avanti la squadra in classifica. (…) Può essere che della vecchia squadra juventina questo sia uno degli ultimi guizzi di energia – ché la squadra è vecchia e non può continuare a funzionare in eterno – ma come guizzo valse un campionato e mostrò cosa sia la classe. Non la si definisce la classe, la si vede. La si vede, tra l’altro, dal modo in cui fa fare con facilità ad un uomo quello che un altro con ogni sforzo non può fare. (…) La Juventus, società dai dirigenti sagaci, dall’ambiente organizzato, dai giuocatori di classe, ha vinto con una squadra che è al suo tramonto, forse il suo più bel campionato. Bello perché è l’intelligenza che lo illumina. La calma, l’accortezza, il freddo calcolo, la precisione sfoderate dal più che trentatreenne Rosetta a Firenze sono l’indice della forza della squadra, la base prima dei suoi successi. È difficile, terribilmente difficile vincere un campionato in Italia. Di questa competizione noi siamo riusciti a fare una fornace ardente. Una fornace che è una meravigliosa fucina di energie fisiche e morali, ma in cui il cammino da battere non si riesce a discernerlo se non si posseggono qualità di eccezione. Una compagine mediocre, il campionato italiano non lo vincerà mai. Queste doti di eccezione, gli uomini che compongono la vecchia squadra della Juventus le possedevano, le han possedute finora nella misura necessaria. Passeran degli anni prima che questi uomini, che tante soddisfazioni han contribuito a dare all’Italia calcistica, vengano dimenticati".
Bruno Roghi, Gazzetta dello Sport, 4 giugno 1935: "Ancora una volta l'elogio della disciplina e della volontà. Ancora una volta il riconoscimento che la Juventus, parlando poco e sottovoce, come s'usa nelle buone famiglie, non perde perché non si disperde. Le vittorie, per essa sono numeri da mettere in fila e da sommare, non serbatoi di chiacchiere. È una squadra, quindi una società, che quando vince esulta, quando perde riflette. Altre delirano quando vincono, si flettono quando perdono. Il mestiere, per la Juventus, significa questo: il domani di una vittoria può chiamarsi sconfitta, ma il domani di una sconfitta deve chiamarsi rivincita... Ma la Juventus ha avuto e detto qualcosa di diverso. Ha detto che le partite si possono vincere o perdere in campo a seconda della legge variabile che presidia i giochi di palla, si tratti delle palline d'avorio o della palla di cuoio. Ma ha detto che i Campionati si vincono e si perdono, essenzialmente, nella sede sociale. Le vittorie sportive non sono soltanto fatti tecnici, o estetici. Sono fatti morali. Sotto questo punto di vista la Juventus fa bene a tenere cattedra. Bene a se stessa, bene ai suoi avversari, bene allo sport nazionale".
Emilio De Martino, Corriere della Sera, 3 giugno 1935: "La Juventus è dunque riuscita un’altra volta a spuntarla e meritatamente, diciamolo pure. Poche squadre avrebbero potuto superare gli svariati colpi di sfortuna che hanno travagliato in questo campionato l’undici torinese. L’infortunio di Monti, l’incidente a Bertolini, le precarie condizioni di Serantoni impossibilitato a giocare per tutto il campionato, le molte assenze di Cesarini, quelle di Ferrari, la partenza di Orsi, per non citare che i fatti principali, avrebbero certo smontato una compagine dai nervi meno saldi e dal morale meno sicuro. Invece la Juventus pur cedendo nettamente su qualche campo – come ultimamente avvenne allo stadio di San Siro – ha saputo resistere alla meno peggio, ritrovando poi nel finale tutta la sua autorità e la sua volontà. Per questo si deve salutare la nuova vittoria della Juventus con simpatia e con plauso".
Corriere della Sera, 4 giugno 1935, senza firma: "Nel campionato testé concluso, la Juventus, unica squadra imbattuta sul proprio campo, può anche vantare i seguenti primati: punti conquistati nelle partite interne (26) e nelle partite esterne (18); vittorie realizzate 18, delle quali 11 sul proprio campo e 7 fuori; reti subite 22, delle quali 15 nelle partite esterne. (…) Durante tutto il campionato, la Juventus ha fruito di 4 calci di rigore, nessuno dei quali decisivo agli effetti del risultato. Due soli sono stati tramutati in goal. Il tiratore scelto della squadra è rimasto Borel II, con 13 porte".
Il 31 ottobre 1987, su Repubblica, Gianni Brera analizza la società che stava e sta dietro la Juventus: "Non è una squadra, è un fenomeno sociale. La nobiltà le viene dagli anni, più giovane di poco ad altri club di Torino troppo esclusivi per non morire di solitudine. Il Duca degli Abruzzi esprimeva plus-calore con altri nobili che presto si vergognarono dei propri slanci plebei. Il calcio squalificava socialmente in Gran Bretagna e Scandinavia, dove era localizzabile l'élite della nuova religione sportiva. Borghesi ancora ignari unirono i propri estri snobistici chiamando pedissequamente Juventus la loro prima collusione pedatoria. Fuggivano dal calcio i principi del sangue, pudichi di un'eccessiva plebeità: restavano i borghesi in grado di declinare correttamente il più delizioso sostantivo della terza. Come giocassero è facile dedurre. (...) La gentile Torino spasimava per le rozze grandigie d'un popolo artigiano e contadino che inglesi ed europei centro-nordici stavano riportando all'industria. La Juventus fu sempre vagamente odorosa di privilegio sociale. Gli aristòcrati si beavano del Torino plebeo (esattamente come al Milan): a mezzo fra loro e la plebe usavano profondere slanci plus-calorici i borghesi colpevoli della retorica Juve. Gli scudetti anteguerra (la prima) erano omaggi alla pacata riconversione dell'Italia africana in schietta Europa. I britannici in esilio a Genova; gli agricoltori aspri e virili di Vercelli; i transfugi torinesi di Casale, sede di un forte presidio militare. Poi il quadrilatero, simbolo di progresso economico-sociale: e infine il Torino, presidiato da nobili alteri (ma spensierati alquanto). I trionfanti Agnelli vengono intrigati a moderar lo scettro del vermouth. La preghiera è fascista, e quindi va presa per un ordine preciso. Il conte Marone Cinzano acquista Allemandi in occasione del derby e ad allargare le gambe è Virgilio Rosetta da Vercelli (non un Cato scripsit Ligurum, sed Gallorum). L'onesto Arpinati da Bologna ha pudore di aver già sottratto uno scudetto al Genoa ('25): lascia prima la Juve nel '26 ma non ha il coraggio di favorire nuovamente il Bologna squalificando il Torino. La Juventus ha plaudito e plaude alla severità dei giudici pedatòri (Allemandi squalificato a vita) finché non aggalla una possibile responsabilità di Rosetta, costato qualcosa come 50.000 lire. Il Torino si vendica nel '28 giocando il calcio più bello (nei confini italioti). Esprime il genio di un alessandrino che invece è di Caselle: Dolfo Baloncieri. La rabbia juventina è contenuta come esige l'educazione dell'ambiente. Don Edoardo Agnelli sforna figli educati come principi, e auto trattate anche meglio, con il più vieto dei protezionismi. I soldi son, ma chi pon mano ad elli? La rima è troppo facile, abrenuntio. I giochi amsterdamiti (sissignori) esaltano gli uruguagi, astuti e sparagnini. L'Argentina è quasi tutta spagnola per tronfiaggine e perde la finale. Si vede tuttavia Mumo Orsi, longilineo tappo di spumante pregiato. Viene in Italia per settemila il mese, la casa arredata e l'auto con chauffeur. Aspetta un anno, transfuga dichiarato. Poi esordisce con sfracelli autentici. L'Inter sorprende tutti con un Weiss già cosciente di spazi e marcature: Meazza usa scattare fra bisonti che fra loro s'incornano, i terzini. Poi succede che Monti, troppo grasso e greve, abbandoni il calcio giocato. Cesarini lo avverte: vieni in Italia, dove calciar non sanno. Nasce una Juventus di spirito uruguagio: la difesa più forte e più protetta: un centrocampo nel quale oscilla un cannone di lunga gittata quale Monti. Poi le invenzioni in attacco, e Borellino. Carcano, gran filosofo del muscolo, diligit pueros come almeno un paio di grandi juventini: ma conviene che scandala eveniant. L'Italia ha scelto ormai la sua fidanzata. Italo Pietra, di antico ceppo alemanno, confessa di aver preso parte alla colletta per regalare un orologio d'oro a Giovanni Ferrari, che a Brescia ha preso un pugno senza minimamente reagire: non squalificato, segnò il gol dello scudetto a Firenze la seguente domenica. Ferrari era figlio della dozzinante che ospitava Carcano ad Alessandria della paglia. Carcano, affettuoso maestro, portò Giovannino alla Juve. Quinquennio memorabile, nel fatidico e ricorrente ventennio italiota (Annibale, Napoleone, Mussolini). Mumo Orsi ci fa capire perché sia fuggito suo nonno: riempie di sesterzi la valigia e fa la stessa strada, certo più comoda (1935). Don Edoardo Agnelli perde la vita volando in un paese ancora fermo al casto asinello. La Juventus decade. Trionfano i rivali di altre contrade. Ma il carisma è fatto e rimane. Il tifoso juventino è borghese o aspirante borghese. Si manifesta dove un capoluogo abbia da farsi perdonare nequizie medioevali. Fuor dal Piemonte, i più devoti juventini sono lombardi, e ancora emiliani di Romagna. Se c'entri anche il Re sabaudo non so dire. Fatto è che la "Juventinitas" è un sentimento che fa casta. Io spesso ironizzo chiamando Thugs i devoti della dea Kahlì: ma sotto sotto li invidio. Hanno un garbo, una certezza, un piglio che non sempre si scopre".
Nel libro "Storia delle idee del calcio" (Baldini & Castoldi) Mario Sconcerti racconta la diversità della Juventus anni Trenta e la portata della sua innovazione: "Edoardo Agnelli aveva trentuno anni all’epoca del suo ingresso nella Juve. Cercò nella Juve un porto franco. Cercò di tenere fuori dalla sua vita, almeno in un ambito, il senatore Giovanni Agnelli, suo padre e proprietario unico delle officine Fiat. Edoardo capisce subito che la proprietà della Juventus gli darà una libertà altrimenti molto complessa da conquistare. Giovanni Agnelli controlla tutto quanto si collega alla Fiat ma ha lasciato al figlio l’aspetto pittoresco dell’industria, la macchina dello sport che in quel momento sta crescendo con grande energia. Nessuno sa ancora dove porterà, nessuno sa nemmeno come controllarla, ma è evidente che è una parte importante del futuro. (…) Edoardo Agnelli vende all’Italia una squadra di calcio, un mezzo di locomozione sentimentale che passa dappertutto e porta dovunque. (…) Ma sa che vincere non deve essere un caso, una somma di circostanze sentimentali. Vincere con gli Agnelli al tavolo deve significare essere bravi, molto bravi. Significa selezionare. Ne fa un tormento industriale. E sbaracca il vecchio mondo delle polisportive. Cerca una squadra come cercherebbe un’idea di carrozzeria. La cerca in tutto il mondo. Edoardo Agnelli sa di avere molti mezzi più degli altri. Può mandare suoi inviati in Argentina e Brasile, può mantenere personale dell’azienda in Sudamerica esclusivamente per cercare giocatori di calcio. Comunicano con il datore di lavoro per telegrammi. Sono vere sintesi di articoli sportivi, con giudizi complessi e pittoreschi che denunciano a volte pratica, a volte dilettantismo. Ma ci sono, esistono, danno informazioni che nessun altro ha. Il problema di Edoardo è dire l’ultima parola, saper scegliere, ma è subito chiaro che è troppo avanti. Nessuno in Italia ha i mezzi della Juve, le sue responsabilità, la sua abitudine alle decisioni finali. Hanno trovato oriundi, sono dentro la regola. E’ vero che la Federazione ha cacciato tutti gli stranieri con la Carta di Viareggio del 1925 ed è ancor più vero che Mussolini ha ormai fascistizzato il calcio pretendendo che si giochi solo tra italiani. Ma Agnelli lo convince che i parenti degli italiani non sono stranieri, solo italiani di una grande patria che si estende anche al di là dell’Atlantico. Tagliarli fuori dalle squadre di casa nostra sarebbe come costringerli a partire una seconda volta. Mussolini capisce e accetta gli oriundi. Accetta il concetto di una patria estesa l’ungo l’oceano, e soprattutto il piacere di dire sì al più grande industriale italiano. (…)
Nel frattempo Edoardo Agnelli ha fatto costruire un nuovo stadio in corso Marsiglia, il primo impianto interamente in cemento armato. In campo tecnico è stato anche più energico. Ha acquistato il primo allenatore dall’estero, l’ungherese Jeno Kalory e giocatori come Ferenc Hirzer e Carlo Bigatto. Ha strappato Rosetta proprio alla Pro Vercelli e costruito il trio Combi-Rosetta-Caligaris. Dall’Argentina arrivano Orsi e Monti, fuoriclasse. La squadra non ha avversari. Il calcio cambia, non è più interregionale, ha finalmente un campionato a girone unico, comincia la “Divisione nazionale serie A”. E comincia subito l’epoca della Juventus. Edoardo porta la squadra allo scudetto nel ’26 poi nei famosi cinque anni dal ’30 al ’35. Edoardo muore il 14 luglio di quello stesso anno, il ’35, che ha consacrato la sua squadra come la migliore d’Italia, forse del mondo. Muore in modo avventuroso, così come aveva voluto vivere (…) Fu una morte che suscitò scalpore, grande commozione, la gente rimase colpita. Come Edoardo aveva intuito, il calcio aveva la forza di rendere subito molto più famosi rispetto all’industria. La sua Juventus aveva cambiato il calcio e dettato le regole del futuro. Ancora oggi sono le stesse. Impossibile coniugare vittorie e bilanci. Il grande calcio in Italia altro non può esser che l’eccesso di un grande finanziatore. A cui però andrà il riconoscimento popolare. In sostanza i più bravi riescono a pagarsi il favore della gente, scambiano i soldi con i sentimenti. Edoardo non diventò mai presidente della Fiat. Nell’azienda non ebbe solo il padre a frenarlo, ma anche la crescita di un grande manager come Vittorio Valletta. Ma è rimasto nella storia per la sua intuizione sulla Juve e il suo modo di gestire il calcio. Cancellando il calcio dei piccoli scudetti e costruendo la Grande Juventus dette inizio a quel circolo virtuoso per cui vincere porta gente e la gente aiuta a portare le vittorie. La Juventus padrona dei cuori nasce allora e non è mai più tornata indietro. Questa è vera modernità".
Nessun commento:
Posta un commento