Sandro Campagna, siciliano, 52 anni, tornato sulla panchina azzurra nel 2008, racconta adesso i giorni della semina dell'italianismo.
Hanno prodotto un titolo mondiale (2011) e consentono al Settebello di giocare a Rio le Olimpiadi n. 20, avendo dietro una Nazionale giovanile oro e argento ai Mondiali 2013 e 2015.
«Sette anni fa mi presentai in federazione con un'idea e uno studio, il presidente mi ascoltò per mezz'ora e mi chiese un progetto. Passai l'estate a scrivere. Tornai con un plico di fogli alto così. Erano anni in cui abbondavano i naturalizzati: stranieri che sposavano ragazze italiane. Il Brescia che aveva vinto lo scudetto 2003 ne aveva sei. Gli italiani non erano in acqua nei momenti decisivi. Mettemmo dei paletti. Scendemmo a un solo straniero. Bisogna saper leggere i passaggi storici. Se non hai giocatori, devi crearli».
Oggi gli stranieri sono tornati tre. Ma i paletti sono costati una procedura d'infrazione dell'Ue contro l'Italia, per violazione delle norme sulla libera circolazione dei lavoratori comunitari.
«Ogni club è tenuto ad avere in acqua sempre 4 italiani. Non sono limitati gli ingaggi degli stranieri. Se dalla panchina ne entra uno, extracomunitario o no, deve uscirne un altro. Ha funzionato. Insieme al potenziamento del campionato Under 17, trasformato in torneo nazionale per 40 squadre: significa che 600 ragazzini viaggiano, vedono, crescono. E' quella l'età chiave».
È un modello che può andar bene anche per il calcio?
«Nel calcio è impossibile condurre una progettazione che eviti i paletti molto ben piantati dalla Lega e dai grandi club. La nostra dimensione economica è diversa. Ma un buon modello è il Cub Italia della pallavolo femminile, giocatrici in età scolastica che si preparano all'agonismo in un campionato vero. La qualità degli allenamenti e del confronto pesa. Così Paola Egonu a 19 anni è già fortissima. Centralizzare fa bene. La storia della nostra atletica insegna che senza centri federali non raccogli. Se dovessero assegnare i Giochi a Roma, avremo tutte le Nazionali qualificate. Per renderle competitive dovremo inventarci qualcosa tipo Club Italia in tutti gli sport. il tempo c'è. Servono risorse e strategie».
Il Recco ha vinto 10 scudetti e 10 Coppe Italia in 10 anni. Come gestisce un ct una situazione così?
«Un conto è la Nazionale, un altro il movimento: questo Recco lo demotiva. La crisi economica fa il resto. Il nostro è uno sport semidilettantistico, a certi budget non può ambire. Ma non mi piace chi si piange addosso. A volte lo fanno i giovani. Questa storia che vadano tutelati, è sbagliata. I ragazzi non devono avere il posto fisso, devono sfondare le porte e prenderselo. Io esorto i club a ostacolarli. Senza autostrade davanti, fanno fatica e crescono prima. Il rischio per la Nazionale è che uno del Recco arrivi in azzurro convinto di essere quello del Triplete e poi si segga. Allora io gli ricordo che magari col Recco ha vinto, ma non è stato un protagonista».
La pallanuoto discute della riduzione a 6 giocatori per aumentare lo spettacolo. Cosa cambierebbe?
«Via un giocatore di movimento. Si impongono i polivalenti. Ma non migliora il gioco, non diventa più comprensibile come vogliono farci credere. Molte cose accadono sott'acqua e non si vedono. È uno sport poco televisivo: avrebbe sempre bisogno di 8 telecamere. Non consente identificazione. Un bambino guarda Messi e prova a imitarlo, ma se a casa vede una giocata di pallanuoto e prova a ripeterla da solo a mare, finisce che affoga. Non possiamo ignorare questi limiti. Quando per 15 anni abbiamo provato a imboccare il professionismo, abbiamo costruito dei disadattati. Il nostro riferimento deve essere la cultura anglosassone, dove formano uno sportivo mentre studia. Il 60% delle medaglie olimpiche americane viene vinto da chi si alza alle cinque per allenarsi, prima delle lezioni o del lavoro. Da noi è un'eccezione: i ragazzi soffrono e certi professori non lo accettano».
Parlava di Giochi a Roma. Dove si vede Campagna nel 2024?
«La vita offre opportunità improvvise. Dopo essere stato giocatore e allenatore, fra uno o sette anni, mi piacerebbe un terzo percorso da dirigente o manager. Non dovesse capitare, siederò su qualche panchina, per spiegare ai ragazzi che non c'è cosa più bella che stare in acqua con un pallone in mano».
(uscito su Repubblica il 9 aprile 2016)
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