venerdì 30 novembre 2012

Al cuore fa bene far le scale

E dopo aver accolto tra le pagine dei libri di scuola i testi delle canzoni, dopo aver ammesso fra Silvia Laura e Fiammetta pure Alice Albachiara e Boccadirosa, ecco, una volta e per sempre, “le canzoni non sono la stessa cosa delle poesie”. Sappiatelo, cantautori, voi che ogni anno sperate nel Nobel al vostro capitano Bob Dylan. Sappiatelo, e andatene fieri, perché “scrivere quattro righe di una canzone è una fatica settanta volte più grande che comporre una poesia di tre pagine”. Parola di poetessa che ci ha provato e ha domato quel travaglio, Patrizia Cavalli, la curiosità incarnata dentro il corpo di una donna. Il suo nome adesso è stampato su un disco, ma un disco vero, purissimo pop, nato dall'incontro con la musicista Diana Tejera, autrice per Tiziano Ferro (E fuori è buio, Scivoli di nuovo), primo album da solista due anni fa. Che ci fanno insieme due mondi così? “Io non ho mai accettato, non le ho detto sì. Il disco si è creato attraverso dei no. Ma Diana è tenace. Faceva finta di niente, mi dava ragione, rideva”.
Tutto comincia con Diana Tejera che mette in musica per conto suo una poesia di Patrizia Cavalli (Diventai buona), vuole fargliela sentire, contatta la poetessa al telefono con gran fatica. Il resto è la storia di un iniziale spaesamento, non diffidenza, che diventa vicinanza, che si fa lavoro di coppia e scambio d’arte. Undici tracce arrangiate con Simone De Filippis, difformi tra loro come poche volte capita di sentire in un album, e Patrizia Cavalli che all'impresa si dà fino in fondo, senza freni snob, scrivendo pure due delle melodie, e poi cantando. Il cd esce insieme al libro, titolo “Al cuore fa bene far le scale”.

Si fanno sul serio le scale per arrampicarsi in casa di Patrizia Cavalli dietro Campo de’ Fiori a Roma, all'ingresso un versante di libri prim’'ancora che di pareti. “Io non ho canzoni in casa, le sento quando vado in taxi. Sono terribili, una cosa spaventosa, l’insignificanza mi fa restare a bocca aperta. Già mentre le sento le ho scordate. Non aspetto altro che scordarle”. Patrizia Cavalli un modello in testa ce l’aveva, ed era americano. “Pensavo a un mio amico paroliere, Jerry Lieber, quello che ha scritto i più grandi successi di Elvis. E poi a Cole Porter”. Canticchia. “Quel pezzo che fa: it’s the wrong time and the wrong place, though your face is charming, it’s the wrong face. Ecco, mi piacciono queste cose qui, quando le parole di una canzone sono belle, colte ma semplici, ricche, con una costruzione lieve, spiritosa, efficace. Quando non dicono cose campate per aria, quando raccontano una storia, quando offrono un movimento linguistico, sorprendente, memorabile. Possono essere anche tre righe”. E in italiano Mina. “Ah, le canzoni di Mina. Adorabili, che posso farci?”. Ricanta. “La radioattività un brivido mi dà, ma tu, ma tu, di più, di più. Queste così, che sembrano stupidine. E poi come le canta lei...”. I cantautori, no. “Si portano dietro questa insopportabile pretesa. De André? Poetico, poetico. Io odio la poesia”. E ride. “Carmen Consoli? Ho sentito due pezzi. Li trovo una mostruosità. Gino Paoli? Non è il mio massimo. Melenso. Nelle canzoni cerco un po’ di cinismo, un lato duro. Paolo Conte? Azzurro, forse, sì. Mi piacciono le canzoni di Patty Pravo. Ah, e poi Battisti”. Battisti-Mogol, questo ormai è chiaro, mica il Battisti ultimo periodo dei dischi con il poeta Pasquale Panella. “Non li conosco, non credo che mi piacerebbero. Mogol invece è piuttosto bravo, anche se ogni tanto ha dei luoghi comuni. Il punto è che ci sono luoghi comuni che passano inosservati, e vanno bene. Insostenibile invece è la parola che ha la volontà di sembrare strana. Elsa Morante chiamava poeta Bob Dylan. Ma neppure lui lo è”. 
Due piani diversi, dice la Cavalli. “La poesia determina se stessa. E’ libera, non è al servizio di nulla. Se ne scrivo una, ho un mio sistema di costrizione privo di un riferimento extra, ci siamo io i versi e le parole, la necessità che il pensiero proceda in una direzione, il mio modo di controllarlo. Ma dovendo scrivere parole per una musica non sono così folle e arbitraria, così presuntuosa da credere che tutto vada bene. Scrivere un testo quando c’è già la musica è poi difficilissimo: le particelle, le sillabe, la parola che non cade nel punto giusto. E’ il motivo per cui la maggior parte dei testi sono insensati. Non le nostre, vero Diana?”. E la Tejera seduta lì vicino che si gode radiosa il piacere d’averla convinta.

Ferma chiusa dentro un cerchio / non c’è uscita e non la cerco. 
Nel disco i versi di Patrizia Cavalli sono elastici senza sparpagliarsi. 
Questa è una legge elementare / non si sta mai al sicuro con l’amore. 

E poi c’è lei, la poetessa, che con la voce fa parì pappà rappappa pa pappà nella traccia che dà il nome al disco. “Peppe Servillo dice che sarebbe stato un pezzo perfetto per Gianna Nannini. Canto bene, vero?”. Confessa il suo andirivieni quotidiano tra esibizionismo naturale e una certa ritrosia superba. “In realtà avrei dovuto fare la musicista, la ballerina, la cantante, l’attrice. Sono così bianca e sono così soul. Se a un poeta s'addice cantare? Non a tutti, forse. A me sì”. Lei che ha studiato piano e che nel disco suona il kazoo. In sala di incisione s’è seduta alla batteria: “Ne regalai una a mio fratello tanti anni fa. La suonavo anch'io, ero brava, me ne vergogno”. Ora dice che insegue una canzone che faccia piangere. “Vorrei scrivere una meraviglia che rimanga per sempre. Una rendita artistica. D’una bellezza inavvertita. Tipo: camminerò, lavorerò, qualche cosa farò, io piangerò”. Il punto è che ora qualcuno dovrà convincerla a fare quella che si chiama promozione. “Ah, ma io ho un’inclinazione commerciale. Se un oggetto messo in vendita non viene venduto è triste, no? L’unico guaio è la mia incostanza. Ma quando sento parlare di prodotto di nicchia provo impressione. Le canzoni e la nicchia, no: mi viene da piangere”. Va a finire che ci ritroviamo una poetessa in classifica.

(il Venerdì, 23 novembre 2012)

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