venerdì 18 novembre 2011

Il vago Lamela

Erik Lamela dice che ogni tanto gli manca il suo mondo. «Un po'. Il mio quartiere». Il sinistro a cui la Roma lega il suo futuro ha un gol in serie A e soprannomi da bambino. Pelle da adolescente, una vita consegnata al pallone come una suora il cuore a Cristo. L'Oceano e l'Argentina sono alle spalle, i distacchi condannano a crescere.
Lamela, che soprannome è Coco?
«Mio fratello non sapeva dire Erik. Faceva: Coco, Coco.E sono rimasto Coco».
In Argentina la chiamano pure Manolito. Perché? «Come mi chiamano?».
Manolito.
«Ah, sì, Manolito. L' ho sentito una volta alla tv. Boh, mica so perché».
Ha già scoperto quanto è matta Roma per il pallone?
«Molto. Per fortuna in strada non tutti mi riconoscono. Se mi fermano per una foto, non mi dà fastidio. Diciamo non ancora».
È più matta Roma o la sua Buenos Aires?
«Eeeeh, sono diverse ma uguali».



La notte che il River Plate retrocesse in B intorno a voi si scatenò una vera follia. È vero che foste costretti a nascondervi?
«Io non ho avuto problemi, non mi risulta che sia accaduto ad altri. Per noi fu un dolore... come si dice... non grande... raro, ecco, fu un dolore raro. Un giorno difficile per la squadra, ma lo fu anche peri tifosi».
C'è qualcosa che le manca della vita di un diciannovenne?
«Gli amici. Quelli che ho a Buenos Aires e non fanno i calciatori. Mi manca scendere, andare a casa di uno, a casa di un altro. Ci sentiamo al telefono, non è la stessa cosa: vorrei poter giocare di nuovo con loro alla playstation».
Una volta ha confessato "Soy un vago", sono pigro: parola pericolosa nello spogliatoio della Roma.
«Nel senso che non mi è mai piaciuto studiare. Tranne un po' la matematica. Coi numeri me la cavo, era una materia che non mi costringeva a stare troppo sui libri».
E invece di studiare da bambino che faceva?
«La mia casa è a Carapachay, un barrio di Baires. Lì vicino c'è un campetto di pelota, io andavo col pallone e ci passavo la giornata, a sette anni ero nel River».
Suo padre voleva un figlio calciatore?
«Mio padre José è stato un giocatore di calcio a cinque. Non mi ha certo ostacolato. Però il primo pallone me lo sono cercato per conto mio. Lui non c'entra. Credo».
Chi voleva diventare?
«Mi piaceva Zidane, era il mio mito, il più grande quando io cominciavo. Maradona non l'ho mai visto dal vivo, ma gli argentini vogliono tutti diventare lui».
C'è un gol nella storia del calcio che le sarebbe piaciuto segnare?
«Mmm... Ci devo pensare. Uno di Messi. Mi basterebbe saper segnare uno qualunque dei tanti fantastici gol di Messi».
Come andò la volta che a 12 anni il Barcellona le offrì un contratto?
«Mi aspettavano per un provino, invece andai in Spagna per un torneo giovanile. Mi videro in partita, alla fine dissero a mio padre che mi volevano».
Per forza: lei segnò 5 gol tutti insieme. Perché non se ne fece niente?
«Ero troppo piccolo per vivere quello che sto vivendo adesso. Complicato. Non ce la siamo sentita. Così io sono rimasto tra i ragazzini del River, mio padre è rimasto in panetteria».
In panetteria?
«La panetteria di famiglia. José el panadero, mio padre a Carapachay lo conoscono così. Finivo di giocare a pallone e correvo lì dentro da lui. Non voleva che mettessi le mani nella farina. È pericoloso, diceva».
Pericoloso mettere le mani nella farina?
«La panetteria è piena di macchinari. Ora che mio padre e mia madre sono con me a Roma, del pane si occupa la nonna. Viene buonissimo».
Vivete tutti insieme a Roma?
«Ho preso una villa lontano dal centro, mi ha aiutato Totti a trovarla. Mamma, papà, i miei due fratelli, la mia ragazza e io. Siamo in sei, a volte anche in sette, in otto. C'è sempre qualcuno che passa... «
 Due fidanzatini a cui il calcio ha stravolto le abitudini. La sua ragazza come vive tutto questo?
«Eh, se è stato difficile per me, per lei è anche peggio. Ha lasciato la sua famiglia in Argentina per seguirmi, nel mio giorno libero giriamo l' Italia. Siamo stati a Venezia, a Napoli, a Capri. Ci siamo conosciuti a scuola, avevamo 16 anni. È la cosa migliore che mi sia capitata a scuola, eh eh».
Chi fece il primo passo?
«Io. O forse lei. Diciamo tutt'e due».
Erik, lei era così tranquillo anche da bambino?
«I bambini non sono mai tranquilli. Nemmeno io lo ero. Sfasciavo cose dentro casa, però adesso non sono più un bambino».
Ma non c'è qualcosa che la spaventa? Di che cosa ha paura un diciannovenne che cambia vita e si sposta dall'altra parte del mondo?
«Di niente. Davvero. Perché dovrei avere paura di qualcosa?».

(la Repubblica, 17 novembre 2011)

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