sabato 7 giugno 2008

Andrea Geremicca, ricordi di un comunista

Andrea Geremicca a sinistra, con Eduardo e Valenzi
I suoi tre quarti di secolo viaggiano come in un romanzo di Calvino. «Tipo Palomar. Al futuro non penso. Il presente è l'onda, e quando si scioglie nel mare mi rifiuto di guardare l'orizzonte. Poso lo sguardo sull'onda nuova che avanza». Andrea Geremicca compie 75 anni il 3 giugno e continua a non distrarsi mai. Vigile, presente, curioso. Sceglie ogni parola come fosse l'unica da dire, sceglie ogni incontro come fosse l'unico da vivere. È per quell'antica mania di amare la vita, persino ora che l'accompagna il dolore più atroce che possa capitare a un genitore, ora che con pudore parla della donna amata da 53 anni come di «una compagna che se n´è andata rimanendomi vicina».
Cucina il pesce a tranci al cartoccio per gli amici e frigge le pizzette alla montanara per i sei nipotini, legge gialli per rilassarsi e riconosce dal peso il tipo di pesce abboccato all'amo. «Un manfrone tira la lenza in maniera unica». Ha ancora le gambe arcuate di chi allenava cavalli da corsa e giocava bene a pallone. Centravanti dei Diavoli Rossi, gol e cazzotti alla litoranea, la squadra dell´Enel che gli offre una maglia. Uno con la fissazione del dribbling, bravo sin da bambino ad andare da una parte spostando l´avversario dall'altra. Come tra le valli piemontesi durante la guerra, staffetta partigiana a 10 anni tra Pieve Vergante e Megolo. «Un giorno mi danno da portare una pistola alla Brigata Beltrami. L'avvolgono in una carta da salumeria e mi dicono: se ti fermano i fascisti, racconta che hai una merenda». Infatti i fascisti lo fermano. «Ma se avessi detto che era una merenda, l'avrebbero presa per mangiarla. Allora faccio: c'è una pistola, la volete? La risposta fu: ma va, va, ragazzino». Il primo dribbling. «C'era un giovane partigiano che chiamavano Pantalone, perché portava sempre i bermuda. Scendeva in paese a comprare le sigarette e si ritirava in fretta. Una mattina lo trovammo appeso al gancio di una macelleria. Una squadra di fascisti si aggirava nei paraggi. Non dimenticherò mai un ragazzino della mia età con un mitra fra le mani. Diceva: sto cercando mio fratello partigiano, lo devo uccidere». 

L'adesione al Pci arriva dopo un rifugio in campo di concentramento in Svizzera e 15 giorni nel carcere minorile di Sant´Eframo per aver partecipato a una manifestazione per la pace. «Nel cortile del carcere, ogni giorno giocavamo un torneo di calcio coi nomi delle squadre vere. Io ero nel Napoli, solo che l'avvocato mi tirò fuori giusto alla vigilia di una partita decisiva. Geremì, dicevano gli altri, te ne vai proprio mò che dobbiamo giocare con la Juventus?». Certo. «Il rimpianto è che non ho mai saputo com'è finita». Il Pci arriva dopo questo e altro. «Volevo rompere con l'ambiente di via dei Mille, ero uno dei fighetti del liceo Umberto. Volevo rompere con una vicenda familiare sofferta, con mia madre morta tra le mie braccia che avevo 16 anni». Si iscrive al Pci, e sulla scheda che il partito gli fa compilare, Geremicca spiega che entra per una catarsi morale. «Salvatore Cacciapuoti, operaio e segretario, mi chiama in disparte e domanda: catarsi morale, che vuol dire? Tento di spiegarglielo e lui mi fa: cancella, cancella...». Il Geremicca comunista è quello che da segretario provinciale della Federazione giovanile chiacchiera con Renato Caccioppoli e passa dossier a Mimì Rea. «Scriveva per il Corriere della Sera. Ci incontravamo all'Angiporto Galleria. Lo informavo, gli davo notizie, lui le pubblicava. La volta dopo mi portava soldi. Ma no, dicevo io. E lui: prendili, non avrei potuto scrivere il mio articolo senza te». E coi soldi del Corriere si finanziava la Fgci. Il Geremicca comunista è quello che con la deputata Luciana Viviani e il medico Carmelo Gabriele va tra i senzatetto accampati nelle baracche di via Marina. «Quando tornai dopo qualche settimana, chiesi a una donna se nel frattempo la sua bimba fosse guarita dalla febbre. Voi, mi disse, vi ricordate ancora di mia figlia? Cara signora, le risposi - ma senza enfasi, perché lo credevo - io sono comunista per vostra figlia. Gerardo Chiaromonte mi dava del populista. Altro che riformista, diceva».

Il riformismo di Fermariello e Valenza, Valenzi e Napolitano. «Da loro ho capito il significato del rigore, della misura e dello stile». E fuori del partito gli incontri con Luigi Compagnone, Enzo Striano, Francesca Spada. «Mi fanno impressione quelli che oggi rinnegano di essere stati comunisti. La caduta del muro di Berlino ha imposto un profondo ripensamento critico, ma l´impegno e la militanza in Italia erano in buona fede. Pci e Dc hanno salvato la democrazia. Ecco perché il Pd non può essere l´incontro tra due forze che tagliano le radici. Devono riconoscerle per arrivare a una sintesi che le superi». Il Pci di Geremicca, segretario cittadino e provinciale, poi consigliere comunale, è quello che nel ‘73 va in trincea durante il colera. «Almirante e il Msi volevano le dimissioni del sindaco, il partito faceva pressioni perché anche io mi associassi. Non se ne parla, risposi, la gente se ne frega. Vuole essere aiutata. Portai una branda al secondo piano di via Fiorentini. Dormivo lì. Davamo una mano a vaccinare i bambini, i consigli di fabbrica uscivano in strada con le scope a pulire le strade. Ebbi ragione». Anche nelle urne. Il Pci vinse le elezioni successive col 41 per cento. Valenzi sindaco, un momento di svolta, poi il terremoto 1980. «Ricordo i consiglieri di quartiere che distribuivano il parmigiano arrivato dall'Emilia agli sfrattati». Geremicca aveva lasciato la giunta per il Parlamento. Le Br aggrediscono Uberto Siola, assessore alla ricostruzione. «Chiaromonte e Napolitano mi convocano a cena a Santa Brigida. Devi tornare in giunta, mi dicono». Macchina blindata, giubbotto anti proiettile, la scorta. «Br e camorra si erano saldate». Nei covi freddi, la polizia trovava le piantine di casa Geremicca.

Gerardo e Giorgio. «Chiaromonte non era un fondamentalista. Mi diceva: se su 10 cose ne indovini 4, sei un dio. Giorgio no, per carità. Esigente. Non potevi sbagliare una riga». Ancora oggi vicini. «Si parla tanto, forse anche troppo di questa amicizia. Ci legano anni di lavoro in comune, ci lega la Fondazione Mezzogiorno Europa. Lui dice che la cosa che mi riesce meglio è fare il giornalista. Sì, allora tutto il resto l´ho fatto per hobby... C'è una regola tra noi: mai parlare dell'attualità politica. Tanto che un paio di mesi fa, col governo Prodi agli sgoccioli, al telefono gli faccio: Giorgio, sto organizzando un convegno, sono preso da mille cose. E lui: sapessi io...». Gerardo, Giorgio e un'altra Napoli. «Non mi ci riconosco più. Mi pare una città incattivita e rancorosa, triste, senza fiducia in se stessa e nel suo avvenire. Il narcisismo napoletano si inorgoglì del Rinascimento e ora soffre per i libri di Bocca. Sono marito di un'insegnante figlia di operai di Ponticelli. Andammo a vivere lì, freschi sposi. Quando vedo che proprio lì attaccano i rom, mi sento male. La sinistra ha perduto il gusto del rapporto con la gente. La politica non la amo più. Preferisco farla. Tra le persone. Invece esiste questo scollamento fra i cittadini e le istituzioni, e quando parlo di istituzioni non penso solo a Bassolino e Iervolino, ma ai vigili urbani che non alzano un dito, all'Asia che non tiene pulite le strade, ai dipendenti dei bus che fanno sciopero selvaggio». Niente sguardo sul mare, solo sulla prossima onda. «I miei 75 anni? Un piccolo incidente di percorso».
(Repubblica Napoli, 6 giugno 2008)

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