venerdì 15 giugno 2018
Come si vive da Roger Federer
PARIGI. Era un ragazzo che spaccava racchette come tanti, oggi è il solo che si muove come un cavaliere, un mistico, uno che cammina con la luce intorno. Il tennista che più di tutti ha vinto senza l’antipatia degli uomini perfetti. Vent’anni da Roger Federer al prossimo Wimbledon. I primi tre per costruirsi, altri due per esplodere, gli ultimi per risalire. È un immortale che non molla il presente. Essere Federer significa colpire la pallina e poi sorridere, stringere mani, fermarsi tre ore al party organizzato al Pavillon Ledoyen da uno sponsor, Möet & Chandon, con una bottiglia creata per lui. Essere Federer significa fingere di ricordarsi di ogni volto incrociato già, rivolgersi a ciascuno nell’altrui lingua, illuderci che sia riproducibile quel suo tennis così leggero e senza sudore. “Ma sono andato via di casa a 14 anni per essere come Edberg e Becker”, dice, “certi sacrifici sono invisibili. Avevo smesso di migliorare. C’è solo una via per crescere. Allenare la parola again. Lo hai già fatto? Fallo di nuovo. Il tennis aiuta: non è mai lo stesso. Bisogna adattarsi alle diversità. L’avversario, la superficie, il clima. Quando piove cambia il modo in cui si colpisce la palla, così anch’io non sono mai lo stesso. Perciò il tennis non mi ha mai annoiato”.
Come festeggiò il primo match vinto a Tolosa con il francese Raoux?
“Ho telefonato ai miei genitori e sono andato a mangiare una pizza nello stesso ristorante della sera prima, perché credevo che avrebbe portato fortuna per il match successivo. Che infatti ho vinto”.
Lei ha origini umili. Il tennis l’ha mai messa in imbarazzo?
“Undici anni fa, alla premiazione di Wimbledon. Ero agitato. Cercavo le tasche dei pantaloni per infilarci le mani e non c’erano più. Stavano dietro. Come la zip. Li avevo infilati al contrario ma era tardi per cambiarmi. Un fotografo inglese mi scoprì. Le premiazioni provocano emozioni forti e arrivano quando sei stanco. Le lacrime sono sempre nei paraggi. Sono cresciuto in una fattoria a San Gallo, mia madre ne aveva un’altra in Sudafrica e ci andavamo in vacanza. Noi svizzeri cerchiamo di non pestarci i piedi uno con l’altro. Credo che tutto questo mi abbia formato”.
Fino a pochi anni fa, nessun tennista riusciva a vincere uno Slam da genitore. Cos’è cambiato?
“Con un figlio la vita di uno sportivo va in subbuglio. Per le donne era come mettere la parola fine alla carriera. Ora Serena diventa madre e torna in campo. Viaggiare è più semplice. Sono sincero: ero molto preoccupato quando Mirka disse che stavano per arrivare dei gemelli. Non sapevamo se avrebbe funzionato. Due figli insieme… e dopo altri due gemelli. Se i calciatori ce la fanno, mi dissi, perché io no? Il tennis è una sfida, la macchina del corpo è esigente. Ma pure prendersi cura dei bambini è un lavoro che si può fare solo a tempo pieno. Per ora ci riesco, ci sono quando serve, a volte me ne stupisco. I bimbi non sono felici quando vado via di casa. Perciò saranno loro a decidere il mio addio, e credo che avverrà in fretta”.
In fretta? Quanto in fretta?
“Smettere non sarà brutale. Ho tanti amici, troverò tante braccia pronte a confortarmi. Se un giorno vedessi i miei figli infelici di seguirmi per il mondo, avrei il dovere di dire a me stesso e a Mirka: ci siamo. Non è ancora così. Viaggiano con me, e per loro significa guardare film, imparare cose, scoprire posti, ora l’Australia, domani Roma. Non è solo per via degli infortuni che gioco meno. Con più tornei farei diventare monotona la vita di chi mi sta intorno. Troppi tornei sono troppi viaggi e bagagli. Devo tenere in equilibrio i miei due mondi. La gente spende soldi per vedermi. Pensa che il tennis di Federer sia una grande esperienza e devo esserne all’altezza. Non posso giocare per obbligo, stanco e annoiato. Se scelgo un torneo, deve accendermi”.
Cosa fa con i suoi figli? In che lingua parlate?
“Stanno crescendo trilingue. Con me parlano in tedesco e in inglese. Ma capiscono anche la madre che gli parla in slovacco. Beati loro che capiscono cosa dice al telefono. Essere stato accanto a Mirka mentre nascevano non si dimentica. Per me la felicità è svegliarsi in sei nello stesso letto. Non lo facciamo abitualmente, solo quando ai tornei capita che l’hotel ci dia una camera con un letto enorme. Certe volte evito, così loro dormono meglio, e anch’io, e Mirka riposa. Dormire è bello, ma svegliarsi assieme mi dà più gioia”.
In casa che fa? Cucina come nella pubblicità?
“Non so cucinare. Mi piacerebbe imparare quando mi sarò ritirato. Cucinare e sciare, questo farò. C’è sempre stato qualcun altro ai fornelli al posto mio. A casa sono quello che sparecchia e che pulisce i disastri combinati dai bambini. Ma un giorno cucinerò per loro”.
Ci sono altri bambini di cui si prende cura con la fondazione. Com’è iniziata?
“L’Unicef mi contattò attraverso il sindacato giocatori. Una mattina ti svegli e senti la voce di tua madre: devi andare a scuola, farai tardi, e non ti va di alzarti. Solo quando cresci ti rendi conto delle opportunità avute. Per due settimane mi dedico solo alla fondazione. Raggiungeremo presto l’obiettivo del milionesimo bambino sostenuto”.
Lei è di quelli che credono al potere dello sport di cambiare il mondo?
“Non credo che cambi ogni cosa. Tutti vogliono vincere, far soldi, diventare famosi. Io sono cresciuto con valori che mi sembrano dimenticati. Quando un genitore viene a dirmi che suo figlio spera di diventare come me, mi sento una guida. Ma mi viene voglia di dire a quel bambino che non potrà sempre vincere, non potrà sempre avere ciò che desidera. A volte si perde, a volte si deve. Lo sport ha il grande potere di insegnare cos’è una sconfitta. Tanti lo hanno dimenticato”.
Se potesse incontrare il Roger bambino, oggi cosa gli direbbe?
“Allenati, divertiti, ma non giocare solo a tennis. Prova anche altri sport. Un solo sport riempie un bambino fino alla noia”.
Qual è la partita di tennis per cui comprerebbe un biglietto?
“Sarebbe stato bello vedere Borg contro Sampras. Sampras era il mio eroe negli anni in cui crescevo, Borg è unico perché ha reso il tennis popolare. La sua storia è ancora più affascinante perché si è ritirato presto. È stato il miglior teenager di sempre. Con Nadal”.
Lei cita la classicità del tennis con i gesti, il look, il fair play. L’ha studiata?
“Negli anni in cui mi allenava Tony Roche, capitava di incontrare i suoi vecchi amici, gente che ha fatto la storia, e allora lui mi raccontava le vite di Borg, Ashe, Noah. Così ho imparato, così mi sono innamorato di Rod Laver, al quale dobbiamo il passaggio al professionismo. Mi sono inventato l’organizzazione della Laver Cup perché i nostri guadagni vengono da lui”.
Cos’è che non le pare in linea con la classicità del tennis che adora?
“Vedere un giocatore che sputa in campo. Non lo sopporto. Ultimamente riescono a piacermi perfino i giocatori che scatenano la folla e alimentano confusione per distrarmi. Ci provano, se ci riescono sono stati bravi. Li rispetto. Mi portano vicino ai miei limiti e miglioro. Ma nel tennis c’è un codice: porgere la mano all’avversario a fine partita, oltre la rete, e stringergliela qualunque cosa sia successa. Non si porta fuori quello che è accaduto in campo. In passato l’ambiente era più aggressivo. I tifosi si divertivano, ma a noi accorciava la carriera”.
È faticoso vivere da Federer?
“Se mi chiede quanto mi piace essere sempre così controllato, rispondo: non lo so. On e off, on e off: sarebbe l’ideale. Non è sempre bello stare al centro dell’attenzione. Sono un professionista per 365 giorni, ma non voglio diventare matto. Devo staccare per essere padre, marito, amico.
C’è qualcosa che fa perdere la pazienza a mister Perfezione?
“Aver paura di perdere l’aereo. Quando guido per andare in aeroporto, non riesco a parlare con Mirka. Mi stressa l’idea di non farcela. Ero un ritardatario, ci ho lavorato su, ora mi infastidisce. Ma quando i bambini sono scatenati e fanno l’opposto di ciò che gli chiedo, in quel momento non mi viene da pensare: oddio, sono Roger Federer, devo mantenere la calma che il mondo conosce. Ecco, non chiamatemi mister Perfezione”.
(Il Venerdì, 8 giugno 2018)
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