mercoledì 6 giugno 2018

La partita dimenticata dell'Italia di Bearzot

Gli italiani arrivarono all'ora di pranzo, e tutto quello che davvero era importante accadde prima che iniziasse la partita. Appena sceso dalla diligenza che percorreva la Ruta 68 tra Santiago e Valparaíso, Cesare Maldini corse a posare le sue tre valigie in camera, attraversando il profumo dei filari, dei fiori e delle empanaditas ripiene di carne d’agnello. Un paio di passi dietro di lui, Gigi Riva tirò fuori dalle tasche il foglietto a righe su cui una mano amica aveva scritto il nome dell’uomo a cui rivolgersi una volta giunti al pueblo, pochi chilometri dal lago Villarrica, per venire a capo del rebus con cui erano partiti dall’Italia, in questa missione quasi senza speranze per conto di Bearzot.

Occhi fini e pelle scavata dal sole, l’uomo magro e allampanato - el gaucho Quidel - stava in attesa sulla soglia della sua casa in legno, piazzata sotto una vetta che chiamavano Il Pollice del Diavolo, pronto ad accogliere gli stranieri. Come se non avesse fatto altro nella vita che studiare la lingua mapudungun, spazzando via sin dal primo istante ogni diffidenza degli indios Mapuche, Riva si presentò a Torcia che brucia con il proprio nome nell'idioma locale, Talcahuano, meglio noto in italiano come Rombo di tuono. La moglie di Quidel, occhi a mandorla e guance rosate dal freddo, con le mani gonfie e callose impastava focaccine di formaggio, che avrebbe poi venduto ai turisti al mercato delle baracche subito dopo il ponte, insieme al mote con huesillo.

“Voi siete quelli venuti per fare domande” disse la donna a Maldini e Riva con un’aria che pareva di disprezzo e invece era solo timidezza, mormorando poi con orgoglio “aquì no falta nada”, qui non ci manca nulla, mentre era proprio di un’assenza che gli italiani volevano sapere. Torcia che brucia sentenziò che se ne sarebbe riparlato solo l’indomani, quando la fiesta del paese sarebbe cominciata con la sfilata di carri, furgoni, cavalli e biciclette, tutti ricoperti di fiori e di bandiere. Era quello l’unico momento in tutto l’anno in cui Quidel, in quanto “lonko”, si apriva per davvero alle curiosità altrui, immerso nella sacralità del Nguillatun, quando le famiglie si mettono in cerchio dentro le capanne, e al centro si erge il totem delle divinità. Nel frattempo se ne sarebbe tornato accanto al fuoco per continuare a trafficare sul curanto, un agnello con patate, cotto in un buco del suolo riempito di pietre roventi e foglie di felce [1]. Che si arrangiassero, i due italiani.

Aspettando il Giorno delle Risposte, Maldini e Riva cominciarono a cercarne per conto loro, immaginando che ne avrebbero forse trovate una volta giunti nei pressi del primo campo di pallone. Seppero da una guida turistica, un ragazzo che a Santiago durante l’anno studiava ingegneria ambientale, che ne avrebbero incontrato uno proprio oltre le rapide e le cascate che attiravano i gommoni dei francesi, dove il fiume sembra trasformarsi in lago, e dove le agenzie di viaggio ancora oggi non mandano nessuno [2]. Il campo era in cima a una montagna, a ridosso del cratere di un vulcano, ai piedi del quale era stato montato un semaforo in grado di registrarne l’umore. “Se il colore rimane sul verde, si può iniziare la scalata. Ma quando si accende la luce rossa, bisogna cominciare a correre”. Il vento gelido tagliava le gambe. Riva disse che al confronto con i colpi di Norbert Hof [3] tutto quello non gli pareva ancora niente e proseguì, mentre Maldini indossò una maschera antigas non sopportando il tanfo dello zolfo. Oltre la meraviglia dell’approdo sulla vetta, da cui si potevano ammirare le viuzze di cemento del pueblo al tramonto, sbucò una sorta di città fantasma in terra rossa, piena in apparenza solo di vuoto e vento, con una gigantesca vallata da cui si sarebbe potuto ammirare un temporale scoppiato a cento miglia di distanza.

di Achille Superbi
da fanofunny.com
Cesare non amava parlare più del necessario ma guardò negli occhi il suo compagno di viaggio e intuì che doveva rompere il silenzio per dare anche a lui il coraggio di andare avanti. “Io sono un po’ zingaro, mi piace girare. Mio padre lavorava per mare e poi è scoppiata la guerra. Non c'era mai, un po' come me quando facevo l'allenatore e a casa mi vedevano poco. Sono stato un padre assente, proprio quello che in cuor mio rimproveravo a lui, poco operativo, ma vigile. Per fortuna, con l’occhio di lince sui sei ragazzi c’è sempre stata mia moglie. Gigi, tu dici che a parlar così sono sessista?”. [4]

Riva non rispose mai. Aveva visto il campo, laggiù, saranno stati quattrocento o cinquecento metri, e cominciò a correre tenendo il capo basso, con la sensazione che prima o poi sarebbe urtato con la fronte contro lo spigolo di una nuvola. Il prato era deserto, occupato all'altezza del dischetto di una delle due aree di rigore da una donna anziana, seduta con le gambe incrociate e gli occhi chiusi. “La piccola figlia di Chee si è ammalata da una settimana”, mormorava, “perché i terribili mostri della terra sono offesi con suo padre Pit”. Cesare e Gigi non osarono interromperla. “Se sacrifichi un cavallo è stato un buon anno per gli affari. Se sei povero uccidi una mucca o una pecora. Pit invece era poverissimo e ha ringraziato la terra sacrificando un coyote. Ma i coyote sono animali repellenti, a nessuno verrebbe mai in mente di sacrificarne uno. Perciò i mostri sono offesi, e vogliono portargli via sua figlia. Noi ora prenderemo la carne del cavallo e la seppelliremo, poi prenderemo il suo sangue e lo rovesceremo qui sull'erba, così la bambina sarà salva”.

Fu quasi subito lampante che no, non era lì che gli indios Mapuche campioni del mondo nel 1942 giocavano ancora a calcio. Non era lì che Maldini e Riva ne avrebbero saputo di più. “Tutto quello che abbiamo in mano è il racconto di un visionario argentino e qualche immagine tratta da un documentario” [5]. Seguendo l’odore del pane fritto e delle zuppe al chili, il suono dei tamburi e le parole delle preghiere, quando ormai era calato il buio, Maldini e Riva si lasciarono la montagna sacra sopra le loro teste e tornarono in paese, molto più che silenziosi, erano muti, ma ormai convinti che se parli alla terra lei ti ascolta, anche il cielo può sentirti, pure i nostri antenati, e se fai qualcosa per loro, loro saranno riconoscenti [6].

Nahuelfuta, portiere dei Mapuche 1942
Fu Quidel a svegliarli, alle cinque del mattino, perché era sorto il sole ed era finalmente giunto il Giorno delle Risposte. “Venite, alzatevi. Andiamo a pescare salmoni”. I giovani del villaggio erano già quasi tutti in piedi, radunati intorno al totem a bere mudai, grano fermentato. Un bue venne sacrificato e il suo cuore ancora battente gettato a terra, così che i raccolti durante l’anno sarebbero stati propizi. Torcia che brucia fissò i due italiani e promise: “Al fiume saprete tutto”. Seppero prima di ogni altra cosa che Quidel aveva provato a vivere in città, a Santiago, ma era quasi impazzito per lo smog e per i rumori, così era tornato alla sua vita, a essere un venditore, un giardiniere, un muratore, era tornato a costruire ostelli nei quali occupare la cucina per allestire menù a base di pesce, frutti di mare e ceviche. Incastrò la canna da pesca fra due spuntoni di pietra sulla riva e con il cenno di una mano invitò Riva e Maldini a seguirlo dentro una tenda sistemata duecento metri oltre la grande duna gialla, dove una dozzina di galline che gli europei dicevano di razza araucana stavano deponendo uova dal guscio azzurro. Ai federali di Bearzot il colore parve un buon presagio, finché non si chinarono per entrare sotto l’igloo a due teli impermeabili giungendo al cospetto di un uomo né troppo giovane né troppo anziano, seduto a terra con le gambe incrociate e un paio di lenti scure a foderare gli occhi. “Eccolo. Il Weupife”. Il relatore della memoria del popolo, accanto al quale stava chinata la Machi, l’autorità incaricata della medicina. Insieme, i due, curavano i bambini dalle febbri, dalle ferite, dalle intossicazioni intestinali. La donna lo faceva con il maqui, il piccolissimo mirtillo dell'arcipelago Juan Fernandez che agisce sui livelli di insulina e di glucosio. L’altro, il Weupife, li guariva del tutto raccontandogli storie al tramonto. Per vincere la diffidenza che si affacciò nello sguardo degli italiani, Quidel sentenziò che “la tradizione orale è antica quanto l’umanità e siamo esseri umani per quella stessa capacità di raccontarci cose, di raccontare come è stato il giorno. La letteratura è seminata di memoria. La letteratura dice quello che la storia ufficiale nega o nasconde" [7].

Maldini e Riva si mescolarono ai fanciulli, e al guaritore dagli occhi chiusi domandarono un poco a tradimento di raccontare quel che sapeva della meravigliosa squadra che aveva vinto il Mondiale dimenticato del ‘42. “Nomi, cognomi, ruoli”, fece Gigi Riva. “Qualche caratteristica tecnica, se fanno il 4-4-2” esagerò Maldini prendendosi una gomitata nel costato. “Siete arrivati fin quaggiù per niente”, sentirono proclamare all'improvviso da una voce sbucata alle loro spalle, una voce che se ne stava a bagnomaria nell'epica. "Voi europei non ci pensate”, continuò “ma a nascere cileni non è un bel guadagno. Soprattutto se volete fare il calciatore. Mi chiedevano: Da chi hai imparato quando eri ragazzo? Da nessuno, rispondo, perché non c'era nessuno da guardare. Siamo gli ultimi della lista, i pezzenti del mondo. Per crescere dobbiamo fare da soli, come il tennista Rios, dobbiamo espatriare". Maldini riconobbe Marcelo Salas. "Io non nascondo le mie origini, essere Mapuche in Cile significa essere considerati dei contadini, dei diseredati, un popolo che ha sempre combattuto contro gli spagnoli, ma che alla fine ha perso tutto ed è stato confinato nelle riserve. Siamo gente dura, noi, non ci nascondiamo, attacchiamo. Ma oggi come oggi devo ammettere che di quello stile di vita a me resta poco, non faccio l'elegia delle mie radici. Ci sono, contano, guai a chi le calpesta, ma non devono diventare un ritornello". [8]

Riva provò a solleticarlo nell'orgoglio. “Hai imparato bene l’italiano”, gli disse. “Sì, dalla televisione”, rispose piccato Salas, “per questo sono sempre cupo. Guardarvi non è stato un gran divertimento. Avete trasformato il calcio in un commercio, senza spiritualità. Chi ha un po' di talento dovrebbe ringraziare Dio. Io anche con i miliardi resto il ragazzo che ama lo stufato di carne con i fagioli. Ho comprato casa ai miei, me la sono comprata per me, ho preso un po' di terra, per il resto sono così nuovo ai tanti soldi che li tengo fermi in banca. E quando sogno un calciatore, sogno sempre Garrincha, morto povero e alcolizzato, con le sue donne che al funerale litigarono per gli spiccioli". Maldini si spazientì: “E allora?”. Salas allargò le braccia e indicò il Weupife. Il quale finalmente parlò. “E allora siete venuti inutilmente. Perché ora vi racconterò della meravigliosa squadra Mapuche campione del ’42 ai Mondiali dimenticati di Patagonia, ma quando uscirete da questa tenda e dal nostro mondo, quando sarete tornati in Italia, anche due uomini verticali come voi saranno incapaci di ricordare, mescolati al vostro popolo ormai incapace di sognare calcio”. Così il Weupife raccontò di questo e quello, descrisse disumane prodezze e imprese monumentali, che solo l’ingenuità e il candore di un bambino - o di un poeta - avrebbero potuto però trasformare in verità.

Maldini e Riva si alzarono come sotto ipnosi. Salas li pregò, una volta in Italia, di chiarire ai giornali un dettaglio. “Hanno fatto un titolo, una volta: - Il bomber che legge Neruda. Ringraziateli per me, ma è falso. Neruda è stato un grande poeta, solo che io non l'ho mai letto. Mi scuso della mia ignoranza, ma non voglio sembrare quello che non sono, mi farebbe sentire a disagio” [8]. Prima di rientrare da Bearzot, rassegnato all'idea di dover giocare la partita senza informazioni, Maldini chiese al signore della memoria almeno di non intervenire con arti magiche sull'esito dei Mondiali. Il Weupife sorrise amaro: “La neutralità non esiste. La neutralità è il rifugio del vigliacco e io non sono, né sono stato e né sarò mai neutrale” [7]. Riva si preoccupò: “Ci batterete allora? Volete eliminare con un imbroglio l’Italia del 1982?”. L’uomo aprì per la prima volta gli occhi e disse: “Il tifoso conta i punti. Io mi emoziono. Io cerco l’emozione nell'atto. L’atto è il contrario dell’azione. L’atto è Joyce, è un servizio di Edberg, una parata del Giaguaro, il vostro Nahuelfuta. Ma voi il Giaguaro non lo fate giocare. Vince davvero solo chi eccede. L’eccedenza è il grande spettacolo. I gesti straordinari, non il risultato [9]. Perciò dieci volte vinceremo perdendo, fratello, perché è così che si saluta la Gente della Terra, senza mai dirsi veramente addio” [7].

Il tabellino della partita
Italia 1982 - Mapuche 1948 2-0
Italia 1982: Zoff; Gentile, Cabrini; Oriali (dal 65’ Marini), Collovati, Scirea; Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni (dal 75’ Bergomi), Graziani (dal 46’ Altobelli).
Mapuche 1948: (la formazione è visibile solo ai poeti)
Arbitro: Ernest Kamga (Camerun)
Reti: 48’ Rossi, 87’ Tardelli.

note al testo
[1] Omero Ciai, il 13 luglio 2000, scrive su l'Espresso: “Le famiglie mapuche funzionano come piccole tribù. Comanda il "lonko", di solito l'uomo più anziano della zona. In molto casi però sono i giovani ormai a comandare con il loro atteggiamento fondamentalista: non fumano, non bevono alcol e, soprattutto, non possono avere relazioni sentimentali con gli "Huinca". Chi non accetta queste regole viene allontanato e considerato alla stregua dei rinnegati, cioè dei mapuche che si sforzano di nascondere la loro provenienza etnica”.
[2] Matteo Gennari, su D, il 22 aprile 2006. “Negli ultimi cinque anni il turismo a Pucón è quadruplicato, soprattutto il turismo di avventura. Si possono praticare sport come lo sci acquatico, il rafting, il canopy, gettandosi legati a una fune tra due alberi, ci si può riscaldare in una delle numerose piscine termali naturali scavate nella roccia o si possono fare escursioni sulle sommità dei vulcani”.
[3] Norbert Hof è il calciatore austriaco, di madre italiana, a cui venne dato il soprannome di "Boia del Prater" per aver colpito Gigi Riva durante una partita del 1970 procurandogli la frattura di tibia e perone.
[4] Intervista a Caterina Pasolini, la Repubblica, 19 novembre 2002
[5]  Nel suo racconto "Il figlio di Butch Cassidy" lo scrittore argentino Osvaldo Soriano immaginò che nel 1942 si fosse tenuta un'edizione dei Mondiali in clandestinità, in Patagonia, vinti da una formazione di indios Mapuche. A questa invenzione di è ispirato il mockumentario "Il Mundial dimenticato" di Filippo Macelloni e Lorenzo Garzella uscito nel 2012.
[6] Barbara Frandino, D, 22 febbraio 1999
[7] El gaucho Quidel qui si esprime con le parole di Luis Sepulveda, nell'intervista rilasciata a Stefania Parmeggiani per Repubblica il 19 gennaio 2015.
[8] Da una intervista di Marcelo Salas a Emanuela Audisio, per la Repubblica, del 30 maggio 1998
[9] Il Weupife doveva evidentemente conoscere Carmelo Bene, giacché aderisce alla sua visione dello sport e del mondo parlando con frasi sue.

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