L’Italiano li aveva riconosciuti senza che loro neppure facessero rumore, come in genere arrivano le sventure, silenziose, contromano. Era sceso dal marciapiede e aveva attraversato la strada, scavalcando una lattina di birra vuota lasciata lungo le strisce pedonali e certi miraggi di premonizione; e nell'attraversare le strade di Rio, stuprate dai lavori per le Olimpiadi, guardando dal finestrino posteriore quella infinita catena di speranze che il tempo si sarebbe preoccupato di frustrare, ebbe all'improvviso chiaro cosa avrebbe chiesto in cambio per questa storia che stava cominciando.
***
Gepsonius era il capo. Non solo di quei sei moscardini. Dalla sua villa di cinquemila metri quadri, trentuno stanze e centotrenta ettari di parco, immersa nel verde e affacciata sul mare, governava gli affari sulfurei di tutta la provincia. Gestiva il commercio di cocaina boliviana, raffinata e smerciata sul mercato locale a un prezzo smodato, sette volte tanto. Comandava la compravendita di armi da fuoco destinate alla bande criminali e padroneggiava lo sfruttamento della prostituzione. Imprenditori a lui legati si erano introdotti con successo negli appalti più disparati. Tutto poteva controllare Gepsonius, tranne il buon esito del provino di suo nipote per la squadra di Rio che più gli stava a cuore. Ecco. A quello avrebbe dovuto badare l’Italiano.
“Perché proprio io?” gli domandò nel suo portoghese impastato d’accento friulano, nascondendo una certa comprensibile preoccupazione per tanta faccia di bronzo.
Il boss si prese un attimo per caricare l’aria di solennità. Si guardò la punta delle scarpe, erano lucide, fissò il poveraccio reduce da otto ore di lavoro e gli rispose.
“Perché quando ci sono gli italiani di mezzo, nel calcio possono succedere miracoli”.
Diciamo la verità. Quando aveva un pallone tra i piedi, il piccolo Manoel detto Mosquito metteva lo scorno in faccia alla storia del Brasile. I suoi tiri in porta erano più tristi della chitarra di Toquinho. Assestava pedate a questa specie di oggetto misterioso, esibendo per intero la sua propensione verso una qualunque altra attività, eccetto quella. E però.
“Devono prenderlo”. Il nonno non se ne capacitava. Solo questo ripeteva. “Devono prenderlo”.
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Nel bairro l’Italiano era noto perché al suo paese, prima di lasciarsi l’Oceano alle scapole, si diceva che avesse allenato una squadra di ragazzini capace di vincere settantaquattro partite di fila prima di perderne una, l’ultima, la finale, e che proprio per quest’onta mista a dolore l’uomo s’era imbarcato su un piroscafo verso le lontane Americhe.
“Ha scoperto Zoff”.
“Ha lanciato Burgnich”.
“Era amico di Bearzot”.
L’Italiano camminava in mezzo a un mucchio di credenze. Ma a forza di lasciar correre, adesso si trovava al cospetto della smidollata incapacità di Manoel con un balon. Una inettitudine così vistosa da spingere a chiedere per il lavoro un compenso altrettanto sfacciato.
Non aveva scoperto Zoff, non aveva lanciato Burgnich e non era amico di Bearzot. Ma la storia della squadra era vera. Non completamente – del resto si sa come vanno le cose con un Oceano di mezzo - ma l’Italiano le sue settantaquattro vittorie di fila sulla panchina della Brigata Ligrìe davvero le aveva messe insieme. Settantaquattro, e poi se n’era andato. Prima dell’ultima partita, non dopo. Questo non lo rendeva incolpevole per la sconfitta in finale, almeno non ai suoi stessi occhi: i ragazzini sotto shock, il 4 a 1 per la Fògule Audace, il senso di colpa per la fuga. Ma in Brasile stava tornando Edna, e senza di lei in Friuli cosa ci rimaneva a fare. Edna voleva tornare a vivere nel paese di sua madre, l’Italiano non dovette neppure chiedersi cosa fosse giusto, mise quel che poteva in un paio di valigie e non la seguì, fece di peggio, la assecondò.
“Scrivi tu la cifra che ritieni giusta”, gli disse allora il boss. “Una metà pagata subito, l’altra metà quando la squadra avrà preso Manoel”.
Solo che all'Italiano venne in mente Edna, di nuovo, dopo tutto quel tempo ormai passato, gli venne in mente il mattino in cui senza preavviso in casa non la trovò più e sul biglietto di Gepsonius non scrisse alcuna cifra. Ripensò agli anni trascorsi in totale solitudine e considerò che la ricompensa più adeguata per un’impresa così estrema fosse una donna.
Gepsonius ritirò il foglietto, lesse e sbarrò gli occhi.
“Sei pazzo. Come faccio a trovarla?”.
L’Italiano trovò dentro di sé la stessa dose di coraggio con cui Pablito aveva calciato da fuori area contro Valdir Peres.
“La troverai”.
“Perché credi ch'io sappia dov'è nascosta?”.
“Perché se è ancora nascosta da qualche parte, tu sei il solo in grado di scoprirlo”.
***
La sera in cui la squadra più amata da Gepsonius accolse per davvero fra le sue giovanili Manoel Mosquito, furono mandati il Corvo e il Cigarro alla casa dell’Italiano. Non erano soli, ovviamente. Perché gli impegni erano stati presi, e gli impegni si mantengono. L’Italiano era appena stato dal barbiere. Aveva fatto scorciare i capelli e radere per bene le guance, meglio ancora la pelle intorno alle labbra. Quando li sentì arrivare, corse ad aprire la porta vestito della sua camicia migliore, profumava di attesa e di impazienza, perché come aveva letto una volta il momento più bello dell’amore è quando saliamo le scale. Ora le scale le salivano loro: il Corvo, il Cigarro e il conto da pagare.
“L’abbiamo trovata” disse il Corvo con un leggero affanno in cima all'ultima rampa.
“Potevi almeno andare a vivere in un posto che avesse l’ascensore”, fece il Cigarro con meno poesia, inadeguato alla scena, questo va detto, va detto con chiarezza.
“Ma i patti sono chiari. Una notte sola. Domattina alle sette torniamo a prenderla”.
L’Italiano fece un cenno con la testa, una specie di sì, un mezzo sorriso. Rinchiuse la porta, dominò lo stupore e di fronte a tanta bellezza ritrovata benedisse l’istante in cui aveva rinunciato a un assegno in bianco.
La donna aveva l’aspetto che l’Italiano ricordava. Portava questa lunga veste, color giallo oro, stretta all’altezza dei fianchi e aderente al seno, prospero ancora, come sempre era stato. I capelli lunghi e sciolti, nello sguardo quel leggero strabismo che Botticelli aveva attribuito a Venere, gli zigomi sporgenti, una fossetta sopra il mento. Le braccia lunghe e sottili se ne stavano immobili davanti all'Italiano, protese verso l’alto. Lui la prese con tenerezza e la tenne con cura fra le mani, per intero, trenta centimetri di donna, tre chili e ottocento grammi. La Coppa Rimet. La Vittoria alata. Ufficialmente rubata nel 1983, sezionata e fusa in lingotti, ma secondo la leggenda metropolitana ancora nascosta chissà dove, in qualche angolo protetto del Brasile. Gepsonius e i suoi l’avevano scovata. La placchetta originale è nel museo della Fifa di Zurigo, sotto una copia del trofeo. L’Italiano aveva invece fra le mani il resto. L’originale perduto.
“Una notte sola”. Questo era l'accordo.
Pensò che con lei avrebbe forse sognato Edna, o forse avrebbe potuto per sempre lasciarla lì dov'era. L'Italiano sollevò allora il lembo dell’enorme piumone bianco comprato per l'occasione nel negozio all'angolo, sprimacciò il cuscino e sistemò Vittoria lì, prima di acconciarsi al suo fianco e tenerla stretta fra petto e braccio; lui sul lato destro, lei a sinistra, distante dalla porta, così che non potesse provare a scappare, nel silenzio che sempre s’approfitta del buio.
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