Il giorno della Milano-Sanremo. La storia della sua strada più famosa, il Poggio, attraverso le parole dei grandi cantori del ciclismo.
Gli italiani non vincevano da sei anni. La Milano-Sanremo s’era trasformata in una lunga attesa dello sprint finale di uno straniero. Perciò Vincenzo Torriani inserì negli ultimi chilometri il Poggio [1]. Era il 1960. “Il primo anno del Poggio è l’anno della morte di Coppi”[2]. A leggere la carta d’identità di questo strappo, questo “cono su cui ci si arrampica azionando l’arma dello scatto e da cui si scende a tomba aperta”[3], viene da domandarsi come sia stato possibile vedergli decidere la corsa tanto spesso. Un’ascesa di tre chilometri e sette, con quattro tornanti e sei curve, pendenza media del 3,7% e punte dell’otto. Una discesa con ventitré curve e sette tornanti interpretabile in più modi, “brutta e pericolosa”[2], “una folle picchiata”[4] “per audaci ma non per pazzi”[5]. È una “affondata sui tetti di Sanremo”[6].
Quando un mese fa sono stato a Sanremo per il festival, l’albergo era a nemmeno cento metri da uno straccio di vialetto, mezzo nascosto, percorso il quale – in salita - si finiva per ritrovarsi proprio lungo il Poggio. Una mattina ci sono andato, a piedi, guardando all'indietro, dando le spalle alla via che conduce all'arrivo e fissando questo “ultimo scoglio”[7] della corsa, questo strano posto che è “niente più che una collina. Che dopo quasi trecento chilometri diventa una montagna. (…) Dallo scollinamento al traguardo sul lungomare non restano che seimila e duecento metri, l’ultimo rettilineo. Se hai abbastanza fegato e fiato a sufficienza, attaccare sul Poggio può essere un buon metodo per vincere la corsa. Adesso o mai più, insomma. Perché in fondo alla discesa è già lungomare, e l’unico finale possibile a quel punto è la volata, lo sprint ruota contro ruota” [8]. Malgrado le buone intenzioni di Torriani, il Poggio avrebbe frustrato gli italiani per altri dieci anni, diventando al suo imbocco “il bivio della malinconia”[9]. Nonostante il nuovo percorso, Felice Gimondi arrivò a credere che “gli italiani non vinceranno mai la Milano-Sanremo”[10], tanto che a un certo punto spuntò la domanda: “A che cosa serve il Poggio?”[11]. Sul Poggio fece il vuoto e vinse al primo tentativo il francese Privat, l’anno dopo un venticinquenne Poulidor, non ancora rivale di Anquetil e accolto come un semisconosciuto al suo giorno di trionfo irripetibile. “Chi si paracaduta dal Poggio cala direttamente sul traguardo”[12]. Merckx se ne andò due volte in discesa (1969 e 1972), come De Wolf nel 1981, Gomez l’anno dopo, Moser nel 1984 e Kuiper nel 1985. Saronni invece era scattato proprio in cima, dove per cima si intendono 162 metri, qualcuno dice 167. Mentre il gruppo s’avvicina e la battaglia vive l’alba sugli altri capi, il Poggio “immobile, aspetta come un bravo”[13]. È il posto dove “la corsa incarognisce”[12], “una gobba in più, una complicazione non secondaria”[14], “un salto terminale”[15] da cui “ci si paracaduta fra i tutori (leggi sostegni) dei garofani, un esercito di lance grigie” [16]. I fiori che lungo questa mezza frustata di salita nessuno dei corridori osserva, sono vanto e sfregio, se è vero che la regina di Polonia “faceva scrivere che davanti a Sanremo tutte le colline erano coperte da limoni, aranci e olive: a un miglio marino non c’era bisogno di sapere che era Sanremo, sentivi il profumo delle zagare. A un miglio marino c’era un grande ulivo, al Poggio, e serviva da punto di riferimento di giorno per i navigatori. Abbiamo avuto il coraggio di tagliare ulivi che avranno avuto quattro, cinque, seicento anni – e nessuno se ne è fregato – per mettere la floricultura, e guarda che cosa è successo”[17]. I profumi lungo il Poggio sono di “basilico, limone, lavanda. Dal mare, lì sotto, arriva un vento di sale. Che si fa più forte in discesa, sui dolci tornanti” [8].
Eppure il Poggio ha avuto un suo lato oscuro. Trent’anni fa la circoscrizione numero 10 di Sanremo protestò “contro l’inefficienza del Comune”. Nicola Di Sante, del pci, disse: “Se non ci saranno date garanzie continueremo questo sciopero del silenzio e ce ne staremo da soli”. Chiedevano la sistemazione della scuola e dei servizi igienici. Ne passarono altri tre e andò in fumo un deposito di prodotti chimici. I bambini scesero in strada a protestare con uno spray giallo e nero su un lenzuolo. “Non siamo Seveso”. Un liquido giallo dai rubinetti, nel gennaio del ’91, accese la minaccia dei residenti per un’auto-riduzione della bolletta idrica. Fu l’anno in cui alla sesta curva Chiappucci staccò Sorensen e usò il Poggio come trampolino, dando una nuova interpretazione tattica della corsa e della salita, “un gibbo che trasforma il traguardo in un miraggio”[18]. L’ultima corsa da suiveur di Mario Fossati. Nei terreni del Poggio avrebbero presto trovato tracce di ddt fino a una profondità di venti centimetri, “colpa di anni d’uso indiscriminato dei fitofarmaci”[19] con la minaccia di inquinamento per le falde acquifere: nel ’98 un’ordinanza del Comune di Sanremo dichiarò non potabile l’acqua della frazione Poggio. Bisognava bollirla prima di berla. Sono i giorni in cui il ciclismo sta attraversando una nuova frontiera. In alcuni punti della salita i ciclisti spingono a 1.200 watt. Furlan scatta all’altezza del santuario della Madonna della Guardia e fa tutta la salita in 5 minuti e 46 secondi, anno 1994, lo stesso in cui la gente di Sanremo s’arrampica sul Poggio per guardare da lì il concerto di Bob Dylan allo stadio comunale. Anche Cipollini tempo dopo salirà lassù di notte, dove un velocista “deve resistere alla bagarre”[20], per studiare la salita, per conoscerla, per domarla, come aveva già fatto – e per quattro volte - il tedesco Zabel.
Sono gli anni d’oro del Poggio e della sua magnifica banalità. "Io lo scalo col 53x17. Ma è un'apnea, non una salita" [21]. Decide una corsa ma non ha una sua epica. “Il tratto di strada di cui parliamo non ha nulla di sacrale, nulla di drammatico, nulla di scenico. Non è la strada brutta e cattiva, per pavé e per aggressioni del maltempo, che spesso decide la Parigi-Roubaix o il Giro delle Fiandre, non è la strada visitata dal vento delle Ardenne, non è la strada ancora innevata di qualche montagna del Giro d’Italia, non è la strada sbianchita dal sole e sonorizzata dalle cicale di qualche pianura meridionale del Tour de France. È una strada molto insignificante, quasi brutta. Non c’è speculazione edilizia moderna, ma non c’è neppure tenera archeologia paesana. Si indovinano alcune serre, che non sono cose belle da vedere, anche se contengono fiori. C’è una chiesa che non è sicuramente la più tenera commovente chiesa del mondo, e neanche della zona. Ieri c’era pure una fasciatura, in tela di pubblicità, davvero eccessiva, così che la strada era ridotta a nastro, l’occhio rimbalzava su quello che era in pratica un lungo e ininterrotto telone e tornava all’asfalto” [22]. Il Poggio diventa un paradosso. È una salita senza supporti letterari. “Le auto dei giornalisti non sono ammesse sul Poggio, tutti vanno subito a Sanremo per mettersi davanti alla televisione. Il Poggio raccontato è quello televisto: e dunque è una strada senza fondali di fantasia, senza scenografie di immaginazione. E’ una strada vera nel più grande falso che ci sia, quello della televisione. E’ una strada non supportata da poesia, invenzione, drammatizzazione fatta con la testa, non con l’obiettivo, con la telecamera (…) È la prima strada interamente televisiva del ciclismo classico. E’ nata cioè quando già c’era la televisione, è stata subito vista da tutti e così non ha potuto essere interpretata ed epicizzata per iscritto dai cosiddetti giornalisti cantori. (…) Acquisire la classicità senza che nessuno ti canti alla maniera tradizionale non è mica facile. Chi scrive queste righe ha percorso il Poggio quasi tutto a piedi, lo conosce bene e garantisce che per renderlo epico ci sarebbero voluti i maghi antichi della penna e soprattutto i loro ingenui pubblici (…) Non c’è il divieto di pensare come sarebbe stato contrabbandato, in chiave di drammaticità anche paesaggistica, dai giornalisti cantori, se fosse toccato a loro inventarlo e tramandarlo. Anche perché non ne frega niente a nessuno” [22]. Proprio Furlan rimane l’ultimo a essere arrivato da solo partendo da lontano. Nelle ultime venti edizioni, quattordici volte la Sanremo è finita con uno sprint. Nato come “regalo che la corsa offre all’audacia” [23], il Poggio nel neo-ciclismo non basta più a tagliar fuori passisti e sprinter. Al massimo seleziona un pugno di uomini: così hanno vinto Bettini nel 2003 e Gerrans nel 2012. È questa apparente semplicità che fa della Sanremo “una diversa metafora della vita, contradditoria per natura: lineare, regolare, con salite e discese che non fanno la differenza, ma ugualmente lunga, misteriosa e avvincente” [8]. Poggio o no, la legge di questa corsa non è cambiata mai. “A Sanremo arrivare secondo è la disfatta più grande, la jella più nera. Ti sembra che anche i garofani, dietro i vetri delle serre, ridano di te” [5].
note
[1]Mario Oriani, Corriere della sera, 17 marzo 1960 [2] Gianni Mura, la Repubblica 1982 e in “Non gioco più me ne vado”, Il Saggiatore, 2013
[3] Mario Fossati, Il Giorno, 21 marzo 1976
[4] Beppe Conti, “Storia e leggenda del grande ciclismo”, Graphot, 2005
[5] Gian Paolo Ormezzano, la Stampa, 15 marzo 1986
[6] Mario Fossati, la Repubblica, 22 maggio 1987
[7] Gian Luca Favetto, la Repubblica, 11 marzo 2007
[8] Giorgio Burreddu e Alessandra Giardini, “Vedrai che uno arriverà”, Absolutely Free, 2014
[9] Bruno Raschi, la Gazzetta dello sport, 1962
[10] Arrigo Benedetti, Corriere della sera, 21 marzo 1966
[11] Corriere della sera, 22 marzo 1961
[12] Mario Fossati, la Repubblica, 15 marzo 1986
[13] Claudio Gregori, “Merckx il Figlio del tuono”, 66thand2nd, 2016 (in uscita)
[14] Gianni Mura, la Repubblica, 23 maggio 1999
[15] Mario Fossati, la Repubblica, 22 marzo 1996
[16] Mario Fossati, la Repubblica, 22 marzo 1988
[17] Libereso Guglielmi, “Libereso il giardiniere di Calvino”, Tarka, 2013
[18] Mario Fossati, la Repubblica, 31 marzo 1988
[19] La Stampa, 16 maggio 1991
[20] Candido Cannavò, “La vita e altri giochi di squadra”, Bur, 2010
[21] Marco Pantani a Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 21 marzo 1998
[22] Gian Paolo Ormezzano, la Stampa, 24 marzo 1996
[23] Attilio Camoriano, l’Unità, 19 marzo 1960
[1]Mario Oriani, Corriere della sera, 17 marzo 1960 [2] Gianni Mura, la Repubblica 1982 e in “Non gioco più me ne vado”, Il Saggiatore, 2013
[3] Mario Fossati, Il Giorno, 21 marzo 1976
[4] Beppe Conti, “Storia e leggenda del grande ciclismo”, Graphot, 2005
[5] Gian Paolo Ormezzano, la Stampa, 15 marzo 1986
[6] Mario Fossati, la Repubblica, 22 maggio 1987
[7] Gian Luca Favetto, la Repubblica, 11 marzo 2007
[8] Giorgio Burreddu e Alessandra Giardini, “Vedrai che uno arriverà”, Absolutely Free, 2014
[9] Bruno Raschi, la Gazzetta dello sport, 1962
[10] Arrigo Benedetti, Corriere della sera, 21 marzo 1966
[11] Corriere della sera, 22 marzo 1961
[12] Mario Fossati, la Repubblica, 15 marzo 1986
[13] Claudio Gregori, “Merckx il Figlio del tuono”, 66thand2nd, 2016 (in uscita)
[14] Gianni Mura, la Repubblica, 23 maggio 1999
[15] Mario Fossati, la Repubblica, 22 marzo 1996
[16] Mario Fossati, la Repubblica, 22 marzo 1988
[17] Libereso Guglielmi, “Libereso il giardiniere di Calvino”, Tarka, 2013
[18] Mario Fossati, la Repubblica, 31 marzo 1988
[19] La Stampa, 16 maggio 1991
[20] Candido Cannavò, “La vita e altri giochi di squadra”, Bur, 2010
[21] Marco Pantani a Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 21 marzo 1998
[22] Gian Paolo Ormezzano, la Stampa, 24 marzo 1996
[23] Attilio Camoriano, l’Unità, 19 marzo 1960
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