I PIÙ spiritosi spuntarono due anni fa in Germania. A Magdeburgo la squadra non segnava da un bel po', così una cinquantina di tifosi si caricarono una freccia tra le braccia, chi la portava verde, chi l'aveva disegnata gialla, colori sgargianti, e dietro la porta iniziarono a seguire l'azione indicando ai loro giocatori la strada giusta per il gol. Una trovata che qualche mese dopo copiarono in Francia, a Nancy, dove piazzarono un gigantesco segnale in curva, rosso, e sotto c'era la scritta: "Le but est ici". La porta è qui. Brutale come metodo. Comunque funzionò. Fecero gol.
Tra laser verdi puntati negli occhi di Mazzarri e fischi di insofferenza verso i Guarin e i Kuzmanovic, almeno questo stimolo estremo è stato risparmiato al povero Palacio, rimasto per sette mesi e mezzo, prima del gol alla Lazio, a domandarsi dove fosse finita la sua antica arte di far esplodere una folla. Risposta che peraltro il resto del mondo conosceva bene. In Brasile, lì era rimasta, nel mezzo dell'area di rigore dello stadio Maracanã. Germania-Argentina, tempi supplementari. Cross di Agüero, il difensore tedesco Hummels che va a vuoto, Palacio con il petto la mette giù e con il piede la manda su. Troppo su. Oltre la traversa. Fine delle speranze di vincere il Mondiale, sconfitta e immediata caduta negli abissi del rimorso e del rimpianto. E l'Inter lì, ferma, ad aspettarlo.
«Il gol non conta, l'importante è che vinca la squadra». La storia del calcio è piena di bugie come questa. Generazioni di centravanti hanno riempito gli archivi di menzogne simili inseguendo il loro scatto perduto, mentre un colpo di testa finiva sul palo e un tiro al volo si perdeva sui guanti del portiere.
Un conto è passare per attaccante generoso, di quelli che si dannano per i compagni: il prototipo era Graziani, poi venne Carnevale, Iaquinta più di recente. Un altro è portare il marchio di chi dentro non sa buttarla più. Capita pure ai grandi. «Non deve pensare al digiuno, si sbloccherà», è in genere la frottola che mettono in circuito gli allenatori. Del Piero impiegò 260 giorni, due anni fa, per ritrovare il gol, e già nel 2009 era rimasto senza per l'intero girone d'andata. Sempre all'Inter è toccato a Milito, al Chelsea c'è passato Torres, che ora sta provando a migliorarsi. Ma il blocco di Palacio era diverso. In 225 giorni, da maggio a domenica sera, aveva messo insieme 23 tiri in porta, un rigore sbagliato contro l'Atalanta e un assist preciso per mandare Thereau dritto verso la porta. Quella dell'Inter. Collezione Infelicità autunno- inverno.
Un digiuno diverso perché figlio del fantasma di Rio, bianco come le maglie dei tedeschi. Palacio ha scambiato perfino il Cesena per la Germania. Un lunghissimo tunnel, peraltro percorso con una caviglia malconcia e ancora oggi non del tutto guarita. Quante cose si possono fare in 225 giorni. Vincenzo Nibali correrebbe undici Tour de France, Stendhal riuscirebbe a scrivere quattro Certose di Parma, mentre Phileas Fogg e Passepartout farebbero in tempo a girare il mondo quasi tre volte. Per non dire di Dante che si spingerebbe oltre, addirittura trentadue tragitti inferno-purgatorio- paradiso in compagnia di Virgilio. Poi all'improvviso, e non sai neanche perché, la retta via che era smarrita ti capita di nuovo davanti sotto le forme di una porta spalancata. Volendo si potrebbe sempre mandarla in cielo. Spazio ce n'è. Ma come spiegava Hemingway per il blocco dello scrittore, un'emozione non la devi descrivere, devi farla accadere. Allora mettila dentro Palacio, il Mondiale è finito, e non se ne parla più.
(la Repubblica, 23 dicembre 2014)
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