mercoledì 10 dicembre 2014

Faccio gol alla squadra di papà

1979/80. Il gol di Antonelli alla Juventus
ECCO, figliolo, guarda: tutto questo un giorno sarà tuo. Ci sono padri che tramandano uno studio da commercialista o una bottega da macellaio, altri cedono il posto fisso nell'azienda municipalizzata di trasporti scegliendo la pensione in anticipo, e poi ci sono quelli che in eredità lasciano la loro vecchia squadra di calcio contro cui segnare un gol. Gli Antonelli, per esempio. Papà Roberto se lo ricordano quelli dai cinquant'anni in su. Stava per compierne appena 26 quando infilò i suoi piedi ispirati dentro la traiettoria del Milan di Liedholm, 1979, lo scudetto della stella. Un perfetto numero 10. In teoria. Salvo scoprire un problema, una volta fasciato di strisce rossonere. La numero 10 era di Rivera.



Roberto Antonelli, detto Dustin per la sua somiglianza con Hoffman-che-nonsbaglia- un-film, tornato dal prestito al Monza, allora indossa prima la otto, più spesso mette la maglia con il quattordici (ehm, in panchina), finché Liedholm si accorge di non poter fare a meno di finte, dribbling, tagli, anche se non si chiamavano ancora così, e gli dà il numero sette. Va a finire con 21 partite e 5 gol, uno pure di una certa importanza che vale il pareggio contro il Perugia, quell'anno avversario per lo scudetto; più un sesto, magnifico, annullato nel girone di ritorno, ancora col Perugia, per un fallo che vide solo l'arbitro Agnolin. «Il ricordo più amaro della mia carriera», dirà lui. Più amaro che essere ignorato dalla nazionale. Una specie di Beccalossi milanista. Ecco, figliolo, guarda: tutto questo un giorno sarà tuo. Il calcio è pieno di dinastie, a volte regali, altre volte assai meno. I Mazzola e i Maldini, i Destro e gli Abate. È già arrivato il nuovo Zidane e si prepara il prossimo Totti.

E gli Antonelli? Luca, figlio di Roberto, nato un anno dopo il ritiro dal calcio, segue passo passo il cammino di papà. Comincia con il Monza e arriva al Milan. Solo che i tempi cambiano ma non sempre come vorrebbe Bob Dylan, perciò un Liedholm non c'è più, e sui piedi di Antonelli figlio nessuno ci lavora. Meglio mandarlo altrove. Bari, Parma, da tre anni al Genoa, dove — ma tu guarda — pure Dustin a sua volta era passato, lasciando perfino qualche traccia nei sentimenti del popolo. «Gioco con il cuore e con le palle», dice oggi di sé Luca, e messa così già pare non ci sia più nulla da chiedere alla vita. Invece del Genoa Antonelli diventa il capitano e poiché «il malvagio lo riconosci in un giorno solo », succede che il terzo dei suoi tre gol consecutivi, quello che concede ai rossoblù la classifica migliore degli ultimi 60 anni, lo segna proprio alla squadra che fu di papà, trascinandola nella polvere. È il perfetto gol di Edipo re.

Come quando Daniele Conti segna alla Roma di Bruno, come Christian Vieri che si libera del Bologna di papà Bob. È l'uscita ribelle da un cosmo. Mentre Antonelli prende il tempo a Bonera, va su e di testa schiaccia il pallone nell'angolo basso, c'è Jim Morrison che canta «Father? Yes son? I want to kill you». È la liberazione del futuro. «Questo giorno ti darà la vita e ti distruggerà ». Poi qualche volta il processo si inverte, le colpe dei figli ricadono sui padri e Dustin Antonelli dice che no, lui per il Milan adesso non tifa mica più. Adesso anche lui è del Genoa e come direbbe Bruno Pizzul dopo un 1-1, tutto da rifare. Meglio lo studio da commercialista, allora.

(la Repubblica, 9 dicembre 2014)

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