mercoledì 8 ottobre 2014

Vita da arbitro

Il più crudele degli attimi. Dura due decimi di secondo. Prima c'è un orizzonte pieno di eventualità, dopo arriva il giudizio del mondo. La vita di un arbitro abita lì, nel mezzo, dentro il cuore di quella minuscola porzione di tempo che scorre lentissima, prima di ogni sua decisione. La sottile linea tra il giusto e il malfatto è nel soffio d'aria dentro il Fox 40, il nome dei fischietti che portano al collo, sono di plastica, quelli di ferro spaccano gli incisivi. Via pure la pallina interna. Così non si inceppano. Come se bastasse a far filare tutto liscio. Ne sa qualcosa Paolo Tagliavento, l'ultimo finito nella polvere dopo Milan-Juventus dell'ultimo week-end. A lui, come agli altri, tocca vivere il più crudele degli attimi almeno una trentina di volte in ogni giornata di lavoro. Significa una decisione da prendere ogni 3 minuti, e però in fretta, subito, con la stessa capacità di reazione di un macchinista delle ferrovie. Vent'anni fa si sbagliavano sei decisioni a partita, oggi ne basta una per finire sulla croce.
Decidere, sempre col fiatone. Non sono meno di dodici i chilometri che un arbitro corre durante una partita di serie A, più spesso diventano quindici, mai tutti allo stesso ritmo. Scatto, stop, marcia indietro, una sbirciata dietro le maglie, e intanto la palla è già dall'altra parte. Vai, corri, fischia. A 45 anni in Italia li mandano già in pensione, come in Spagna, lavoro usurante. È in Inghilterra che durano un po' di più: un gruppo di ricercatori ha verificato che gli arbitri più anziani corrono sì di meno, ma sono più spesso vicino alla palla: "Sono più bravi a prevedere il gioco e ad anticipare i movimenti". All'estero non è raro trovare corsi dedicati per la cura dell'autostima e per allenare la rapidità con cui vanno prese le decisioni. È una questione di strategie di programmazione neuro-linguistica, per questo i bilingui sono avvantaggiati. I nostri arbitri corrono. Si allenano due ore al giorno. Fanno gli architetti, gli assicuratori, i bancari. Oppure il parrucchiere (Tagliavento). Guadagnano poco più di 5mila euro per una partita in serie A, circa 2.500 in serie B e 1.300 per una notturna di Coppa Italia. Se vieni designato come "quarto uomo" (l'assistente che siede fra le panchine) non si va oltre i 500 euro. Ai gettoni di presenza s'aggiunge un'indennità di preparazione che premia il curriculum: 37.180 euro annui agli internazionali, 24.180 a chi ha messo insieme più di 25 gare in serie A, 18mila per tutti gli altri. Ma la strada per arrivare in serie A è lunga, non meno di un decennio di battaglie sui campi impolverati dei dilettanti, la diaria che oscilla fra i 26 e i 40 euro, più le spese di viaggio. Se alla fine si arriva a 200 è già tanto. Domeniche di smacco e avvilimento. "A Fossalta di Piave, una volta arrivai con la borsa da arbitro e tre ore di anticipo. Chiesi al guardiano dove fossero gli spogliatoi, il custode si rivolse all'amico che stava segnando il campo: Nino, tira fora el cavalo che xe rivà l'arbitro", il racconto è di Paolo Casarin.

Per iniziare bisogna aver compiuto almeno 15 anni e non averne più di 35, occorre il diploma di scuola media inferiore. Li reclutano in 212 sezioni, da Abbiategrasso a Vibo Valentia, con gli arbitri da bambino finisci per studiare pure la geografia. Uno diceva Barbaresco di Cormons, e imparavi qualcosa in più sul Friuli. La convocazione in serie A arriva con una telefonata, oppure con una mail, due o tre giorni prima. Il computer in ufficio fa plin, e ti dice che ti tocca Inter-Fiorentina, o Roma-Udinese. Da quel momento comincia lo studio della partita. Le squadre, le tattiche, le possibili insidie. Chi sono i simulatori, chi sono quelli che protestano. Perché nel tempo il mestiere più difficile al mondo è cambiato. Il fischio è solo una parte. Hanno cominciato dando all'arbitro una divisa colorata, hanno continuato cambiandogli le regole sotto gli occhi. Nel dubbio, prima dovevano privilegiare i difensori. Poi sono arrivati i noiosissimi Mondiali del '90 e il desiderio della Fifa di migliorare la qualità della vita degli attaccanti. Così nascono il fallo da ultimo uomo, il fuorigioco ininfluente, il concetto di "danno procurato" sul fallo di mani al posto della "volontarietà". È il calcio che va più veloce, più gol, più rigori. Ma significa anche con più contestazioni.

Scriveva Mario Soldati che "l'equità del comportamento dell'arbitro di calcio viene messa a repentaglio da due ordini di pressioni: la violenza psicologica dei giocatori e del pubblico: la possibilità di corruzione". L'arbitro perfetto è quello di cui non si parla, paradossale per un uomo che ha scelto di mettersi al centro di una scena. Ogni mese, dei loro errori, discutono all'interno di una stanza, al centro di Coverciano. Faccia a faccia con il più grande nemico della categoria. La moviola. Ne hanno una in casa. Ai raduni parte il replay e scorre il fallimento. Dopo averlo visto e rivisto cento volte in tv. Le immagini non sono mai d'aiuto. Il referto va spedito al giudice sportivo senza vederne, prima di lasciare lo stadio. C'è un fax nella stanzetta. Non c'è mestiere più di questo che abbia l'errore per compagno di percorso. Una carriera si può ribaltare per centimetri. "Il dovere di decidere", lo chiamava Rosetti, arbitro internazionale, uno dei migliori al mondo, la carriera spenta da un fuorigioco dell'argentino Tevez non visto al mondiale in Sudafrica. Da un po' s'è aggiunta la dieta. Si mangia tre ore prima della partita, 100 grammi di pasta con pomodoro fresco e parmigiano. Una fetta di crostata con marmellata, evitare crema, panna o cioccolato. Due volte all'anno si tiene il test per verificare le condizioni di forma, si chiama Yo-Yo, scatto avanti e scatto indietro, ecco perché. E poi c'è quello della tv che ne sa più di te.

La durezza del mestiere la conosce bene il cinema. "Quando facevo l'arbitro in serie C mi minacciavano in tutti i modi, ma io non ho mai avuto paura", è la bugia migliore che il ministro Botero (Nanni Moretti) sa scovare ne Il portaborse per descriversi come un duro. Poi c'è il protagonismo. Prima ancora del delirio di Lando Buzzanca nei panni di Carmelo Lo Cascio da Acireale (L'arbitro, film del 1974), c'era stato Marcello Mastroianni come arbitro Tornabuoni ne Il nemico di mia moglie (1959). Lo insultano, gli sfasciano la Lambretta, lui torna a casa e sua moglie (Giovanna Ralli) gli dice: "O smetti di fare l'arbitro o divorzio". Avrà il fiato per mormorare a un amico: "Solo sul campo mi sento qualcuno". La debolezza dell'arbitro dev'essere questa. Del resto Vittorio Pozzo, il ct mondiale dell'Italia '34 e '38, diceva che "neppure lo spettatore è un uomo perfetto. Paga per fare lo spettatore e poi vuole fare l'arbitro".

(la Repubblica, 28 febbraio 2012)

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