giovedì 30 ottobre 2014

Ali-Foreman secondo Giovanni Arpino

Rumble in the Jungle. When we were kings. Foreman-Ali. 30 ottobre 1974. Il match più famoso nella storia della boxe. Ne scrisse Norman Mailer. In Italia Giovanni Arpino, che il quotidiano torinese "La Stampa" mandò come inviato speciale in Zaire a seguire l'evento. Questo è il pezzo che Arpino scrisse 24 ore prima: sul giornale occupò l'intera pagina 3.


È arrivato il gran giorno per Ali, per quella che lui interpreta come una festa della "negritudine". Kinshasa è gonfia di nuvole, i temporali della prima estate esplodono con furia per placarsi poi in un clima afoso. Ma Ali Muhamad, sdraiato sull'erba nel suo "quartiere" di N'Sele, ride e chiacchiera con i prediletti esponenti della stampa americana. Costoro lo stuzzicano, l'invitano alla polemica. E il pugile nero accetta, giocando di fino. Definisce il suo avversario Foreman un "fratello ridotto dalle circostanze a lavorare per il sistema dei bianchi", non tralascia qualche piccola frecciatina verso il presidente Mobutu che troneggia dai manifesti. Poi, con un sorriso all'immagine dell'uomo politico, fa: "Scusami". E seguita a parlare dei problemi dei neri.


Altrove, Foreman spera soltanto nei suoi enormi pugni, autentiche mazze travagliate da nodi e contrafforti e macigni. Lui, benché campione del mondo, benché indicato dagli esperti come possibile vincitore, benché più giovane di otto anni rispetto ad Ali, è zero virgola zero, un pugile e basta, non un'idea, non un personaggio, non un invincibile come Ali. Che può perdere l'incontro ma resterà pur sempre il "grande fratello" delle masse nere, un esempio e un monito. Per un giorno o due, Muhamad ha superato, negli ambienti che hanno peso, la importanza acquisita dai vescovi africani come Zoa o Otunga, che al recente Sinodo hanno inaugurato con parole crude la nuova "via africana all'evangelo". In un continente che si muove, e brucia di fervori, speranze, mentre i fermenti rivoluzionari e reazionari ribollono uniti ai commerci più spregiudicati, agli "slogans" ed alla paura, anche Ali Muhamad ha una parola da dire. Se vince, egli stravince. Se perde, non deluderà soltanto le folle nere, che guardano a lui come a un mito, a una reincarnazione totemica, ma sarà più difficile, per gli esponenti della "negritudine", sostenere diritti, dibattere teorie spesso capziose. È quasi obbligatorio dimenticare le strutture portanti di questo "affare" pugilistico. Il governo di Mobutu, una società svizzera, una statunitense con interessi inglesi hanno costruito dall'ipotesi di un combattimento il più colossale spettacolo del mondo. Dieci milioni di dollari ha investito Mobutu, cinquanta miliardi di lire verranno alla fine spartiti tra i protagonisti e una serie intera di sigle commerciali. Ma i vecchi segugi della boxe commentano: "Dopo di lui, solo più un pugno di mosche". E quel lui è sempre Ali, che ha già pronosticato la fine della noble art quando i suoi pugni non mulineranno più sul ring, quando la sua vivacità intellettuale leverà pimento agli interessi spesso sordidi che ruotano intorno al "boxing".
A poche ore dal combat, Kinshasa gode della sua effimera sensazione di capitale del mondo. Tappezzata di manifesti in cui Mobutu alza le mani dei due avversari, sdraiata per cinquanta chilometri di casupole e grattacieli, officine e tetti di lamiera, la metropoli zairese cova il suo gioiello. E Ali la eccita con rappresentazioni incredibili: per esigenze televisive, ieri sera è stata organizzata una finta operazione del "peso", e diecimila persone, tra suoni di tamburi e chitarre elettriche, hanno potuto rendere omaggio a Muhamad ilare e arrogante come nei giorni migliori.
Nella hall dell'Hotel Intercontinental, la mamma di Ali, un'imponente signora di nome Odessa, con un vestito dai rigonfiamenti rinascimentali, pontifica a sua volta con larghi sorrisi. Dall'entourage del pugile manca solo la nonna, che molti ricordano al seguito di Ali, unica personcina minuscola in tanta ressa di corpaccioni: era infatti alta un metro e cinquanta, e i nipoti la portavano in spalla come una bambola. Può darsi che il presidente Mobutu, in uno dei suoi improvvisi annunci, decida mercoledì, dopo l'incontro, che la giornata sia di festa nazionale. Lo Zaire è abituato a queste mosse, soprattutto da quando l'uomo politico ha abolito il Natale con un tratto di penna per riservare le celebrazioni necessarie solo a date che si legano alla sua vita e allo sviluppo della Repubblica. Nella sua ricerca di una "autenticità" che sia capace di collegare gli antichi costumi carichi, l'immenso territorio della Repubblica. Kinshasa, secondo i piani, dovrebbe diventare nel giro di pochi anni una città modello, e le imprese industriali dovranno mutare il volto d'un Paese spesso contraddittorio, per distribuzione delle ricchezze e per risorse naturali non ancora sfruttate (dal petrolio all'energia elettrica, ai diamanti). Il Presidente ha subito intuito come l'incontro tra Ali e Foreman potesse fornirgli un palcoscenico di straordinaria luminosità. I primi organizzatori avevano pensato addirittura di ospitare il combattimento entro gli archi sgretolati del Colosseo romano. Ma questo sogno hollywoodiano fu subito abbandonato, per difficoltà di ogni genere, per la miriade di carte da bollo che fa da cornice all'affare. Il solo Foreman è carico di debiti e citazioni, mentre Ali, cosi abile nella rifinitura del suo personaggio, ha immediatamente capito che il combat nell'Africa sarebbe stato l'anello prezioso nella sua lunga disciplina di musulmano nero. E ora infatti ne parla come un vate, quasi spregioso di dover limitare all'esame di un pugno, di un round, tutte le implicazioni che il suo ruolo offre.
Fa molto caldo, una patina di indetergibile sudore avvolge fino a notte inoltrata. Nelle piscine delle ville dove vivono i mundele, cioè i bianchi, bambini nuotano, e l'acqua sa di cloro. Ma noi mundele possiamo capire solo il lato agonistico che offre il combat, non le sue motivazioni segrete. Qui, il bianco, anche se patron, è accomunato in una definizione molto precisa: tutti insieme, belgi e greci, italiani e americani, i mundele sono anche detti gli "espatriati": cioè sanno far tutto, sono abili, inventano, creano, ma vivono di passaggio in territori che non possono diventar loro, neppure dopo venti o trent'anni. Non è per costoro che Ali è venuto a Kinshasa, anche se a loro deve la fama, la ricchezza, la gloria polemica. Egli sa di rivolgersi ai bambini e ai vecchi neri, che lo fiutano come l'ultimo dei re, gli parlano in un francese che sembra salire da morbide caverne polmonari.
Quanto durerà? E' un re che perderà. Solo una serie di circostanze incredìbili — dalla tensione di Foreman a un colpo fortunato — possono ridare a Muhamad il titolo mondiale dei massimi. La sua agilità di felino avrebbe resistito forse dieci riprese, ai bei tempi. Oggi, durerà sei? E' quanto fa capire Foreman, ingrugnato dalla coscienza della propria mediocrità intellettuale, ma deciso a farla finita con l'alone che circonda Ali. Dice il campione: "Ali è forte, Ali è importante, io lo rispetto, lo conosco, lo abbatto". Muhamad ride, non si esibisce nelle antiche profezie sulla tale o talaltra ripresa decisiva. Sa di non essere più sciolto come ai tempi di Sonny Liston. Sa che una cintura di grasso intorno ai lombi denuncia l'incalzare dell'età. Sa di aver scaraventato feroci sinistri e destri per quattordici anni di professione. Ha avuto tempo dì allenarsi, di studiare, di far sacrifici per questa notte di Kinshasa, ma solo lui e i suoi fedeli pregano e sperano nel miracolo. Foreman, a guardarlo bene, è una specie di Lothar, la gigantesca "spalla" nera del mago dei fumetti Mandrake. Ne ha il fisico, l'ingenuità disarmante, la potenza muscolare. Ma Ali non lo si può paragonare a figure viventi o cartacee. E' unico. Per ritrarlo, una rivista tedesca di sport lo ha presentato come un San Sebastiano in calze bianche, cintura everlast, mutandine da combattimento e sette frecce che lo insanguinano dal costato al polpaccio. Ali è fiero di questo "montaggio", perché l'idea dell'eroe invincibile pur se sconfitto gli si connatura perfettamente.
I ricchi tifosi
Volti brutali di suiveurs dalle orecchie accartocciate e le nocche protuberanti condiscono qua e là il panorama umano di Kinshasa, nelle ultime ore. Dovrebbero arrivare anche gli esponenti dell'ultimo jet-set sportivo, da Delon a Belmondo. Il prezzo degli oggetti in avorio è aumentato, all'aeroporto gentili ragazze accolgono i viaggiatori pronunciando un solo interrogativo: "Combat?", e subito dirottano lo straniero verso una speciale sala d'attesa. La notte di Ali può durare pochi secondi, o forse mezz'ora, o persino per tutte le quindici riprese. Ma fa già "storia" nei discorsi che corrono a Kinshasa. Stamattina, alla sede della Banca zairiana, un ingegnere ha rimandato a dopodomani la richiesta di un prestito. Molte cose verranno decise, sempre dopo il combat, che è diventato un perno della esistenza locale, un fantasmagorico fetìccio. Sulla possibile esaltazione derivante da una vittoria di Ali, molti discutono con voce preoccupata. Diversa gente, venuta a Kinshasa da lontanissimi villaggi, occupata in umili lavori, non conosce il giorno della sua nascita, ricorda a malapena l'anno. Per questo il "combat" contribuisce a "far data". Il "prima" di Ali e il "dopo" Ali si incontrano domani notte, nel Paese dei leopardi.
Giovanni Arpino

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