mercoledì 5 giugno 2013

"Volevo essere Audrey Hepburn"



Lo disse Maria Sharapova nel 2012 a Parigi. Poi vinse il torneo. L'intervista è qui sotto. 


Il cocktail resta lì dov'era. Come i crostini. Non tocca arachidi, né un succo, né un salatino. Essere Maria Sharapova. Un tavolo davanti agli Champs-Élysées, il Roland Garros nella testa. L'unico Slam che non ha vinto mai. «C'è un tempo per ogni cosa, ora sono pronta». La donna da 17 milioni e mezzo di euro l'anno non porta mai gli occhi da un'altra parte.
È la campionessa del mondo dello sguardo dritto. Ma quando racconta di sé abbassa la voce. Ha pose che le addolciscono ogni spigolo. Dice che vorrebbe essere «una donna forte rimanendo elegante». Come se a volte volesse essere solo Maria.


Ha già vinto il totale dei tornei di un anno fa (2), Stoccarda e Roma, terra battuta, dove una volta raccontava di sentirsi a suo agio quanto una mucca sul ghiaccio. Invece ora viene il bello, Parigi, domani il debutto con la romena Cadantu. È da dieci anni che chi vince Roma non vince il Roland Garros. Non è il momento per farglielo notare. «Non avevo mai iniziato così bene sulla terra. Forse non ero pronta, forse per domare questa superficie bisogna essere più maturi, o dovevo solo esserlo io. Maturi per correre, per scivolare, andare in difesa, per essere cattivi».
È più cattiva, ora, a 25 anni?
«Sono una che combatte. Non credo che si possa andare in campo pensando: Uff, oggi mi tocca un'altra giornata di lavoro. Il tennis è psicologia. Quando sono tornata in circuito dopo l'infortunio, avevo paura che non ricordassero neppure il mio nome e io non ricordavo quanto mi piacesse giocare».
Il numero uno in classifica, Parigi o l'oro alle Olimpiadi?
«Parigi e i Giochi sono due belle occasioni. E poi a Londra per me sarà la prima volta. Sarà speciale».
Speciale perché?
«Mi riprendo la Russia, i miei ricordi, potrò restituire qualcosa di me al mio Paese. Quando ero bambina, noi russi guardavamo il tennis in tv, ma era uno sport per occidentali. Ora no, ora siamo protagonisti. Posso anche sperare di regalare una medaglia d'oro al mio Paese».
La Russia ha già scelto chi porterà la bandiera alla cerimonia d'apertura?
«Oh. Non credo. Non mi pare».
Se lo proponessero a lei?
«Nessuno me ne ha parlato. Ma come potrei? Il giorno dopo inizia il torneo, dovrei restare 6 ore in piedi con la bandiera tra le mani. Non so...».
Allora non andrà neppure alla cerimonia?
«Non la perderei per niente al mondo».
La sua prima racchetta. La ricorda?
«Me la regalò Kafelnikov. Suo padre e mio padre giocavano insieme a Sochi, erano amici, Evgenj me ne diede una delle sue».
Colore?
«Nera. Bleah. Cose da maschi. Avevo 4 anni, un manico lunghissimo, tornammo a casa e lo adattammo a me».
Tennis, tennis, tennis. Era il suo solo sogno?
«Sono cresciuta con questa ambizione. Il punto è: i bambini devono avere un sogno, ma i genitori devono essere realistici. Ho visto un mucchio di ragazze gettare soldi nelle accademie. Ce la fa una su quante: su un milione? Se il tennis è la tua opzione A, non puoi permetterti di non avere un' opzione B».
Lei aveva un'opzione B?
«Credo che sarei diventata architetto. Sarei stata benissimo anche senza fama e senza tutti questi soldi. Mi sarebbe piaciuto. Del resto il tennis è ricerca dell'organizzazione dello spazio».
C'è qualcosa di questo desiderio incompiuto nel fatto che disegna abiti da tennis?
«Quando disegno, imparo. Studio. Penso. Un vestito è quello che sei in quel momento. Quando sei sicura di cosa indossi, sei anche più sicura di te».
Quando le è venuto in mente di cominciare?
«La prima volta che ci ho pensato avevo 10 anni. Le aziende mi proponevano magliette che per me erano vestiti. Lunghissime. Dovevo arrotolarle, qualche volta a casa le tagliavo. Mi dissi: un giorno me le farò da sola».
Disegna bene?
«Oh, non sono Picasso. Per fortuna alla Nike mi ascoltano, c'è questa bella collaborazione con loro. Ora capita di ritrovarmi per avversaria una ragazza che veste i completi pensati da me. Curioso. A fine partita andiamo a rete, ci salutiamo e lei mi fa: bella partita, ah sì, e anche bel vestito».
E tra gli uomini chi veste meglio?
«Mmm... Vediamo... Nadal».
Miss Sharapova, sul serio?
«Avrei dovuto dire Roger, vero? Be', Federer è l'icona dell'eleganza. Ha una cura pazzesca dei dettagli. Non ha mai fuori posto neppure un polsino. Ma di Nadal mi piace come combina i colori».
Quanto lavora la donna più ricca del mondo?
«Quanto pochi immaginano. In media 5 ore al giorno, tra campo, palestra e casa, dove faccio esercizi per la spalla».
Cosa le pesa di più?
«Guardare il programma del giorno dopo e scoprire che il mio match è il quarto. Arrivi al campo con due ore d'anticipo, ti riscaldi, e quelli prima di te vanno avanti un altro set. Ti fermi, ricominci. Ecco, questo è difficile. Conservare pensieri leggeri e tenere la testa sempre lì».
Come si allena la testa?
«Con l'esperienza. Quando hai messo da parte un po' di sconfitte, sai finalmente cosa ti serve per avere più vittorie».
E i videogames? Uno studio sostiene che aiutano i calciatori a leggere meglio le situazioni in campo.
«Sono fatti benissimo. Io stessa ho aiutato un'azienda per dei test. Ma non li amo. Credo di averci giocato l'ultima volta cinque anni fa».
Con il suo avatar?
«Noooo».
Non pensa a quante ragazze vorrebbero essere Maria Sharapova?
«Oh sì, ma se io non fossi me, vorrei essere Audrey Hepburn».


(uscito su la Repubblica il 28 maggio 2012)

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