'Ncoppa.
Sopra. E’ una parola del dialetto napoletano che piace molto a chi napoletano
non è. Gli piace proprio pronunciarla. Fa humus. E’ efficace. Riempie la bocca.
Dà subito l’idea di un mondo. Piace così
tanto che spesso viene pronunciata anche quando non c’entra niente. Ieri
mattina l’ha ritirata fuori Aldo Grasso, nel suo domenicale fondo in prima
pagina sul Corriere della Sera, e l’ha sistemata lì, in mezzo a una manciata di
righe di critica al sindaco De Magistris e alla sua infelice esperienza
amministrativa.
Secondo Aldo Grasso, i napoletani per descrivere il loro sindaco userebbero i seguenti soprannomi: Giggino ‘a manetta (più o meno, sì), Giggino ‘o skipper (mmm…), Giggino ‘o scassatore (bah), Giggino ‘o floppe (cioè il flop, e qui sta già per crollare tutto), Giggino ‘a promessa (ahia), Giggino ‘ncoppa ‘a gaffe (addio, è venuto giù tutto).
Secondo Aldo Grasso, i napoletani per descrivere il loro sindaco userebbero i seguenti soprannomi: Giggino ‘a manetta (più o meno, sì), Giggino ‘o skipper (mmm…), Giggino ‘o scassatore (bah), Giggino ‘o floppe (cioè il flop, e qui sta già per crollare tutto), Giggino ‘a promessa (ahia), Giggino ‘ncoppa ‘a gaffe (addio, è venuto giù tutto).
'Ncoppa ‘a
gaffe non significa niente. Ma proprio niente. “Sopra la gaffe”, che vuol dire?
E’ un po’ più chiaro invece cosa voleva Aldo Grasso. Voleva un tag. Una parola-mondo. Cercava riparo
sotto l’ombra del format mentale con cui si parla di alcune città. E’ un codice
linguistico, una convenzione mediatica. Se uno scandalo accade a Roma è alla
vaccinara, se scoppia a Napoli è c’’a pummarola 'ncoppa (adesso sì, 'ncoppa ci
vuole, giuro).
E' un metodo. Si applica ad alcune città, solo ad alcune parti del Paese. Dove non si racconta mai di una condotta sbagliata, di un errore, un fallimento, un’imprecisione, dell’inadeguatezza di una persona. Mai. Non si racconta mai solo quello. In quella condotta c’è sempre il ritratto di un popolo, una radice che deve rispondere di un frutto guasto. L’imputato è davanti a uno specchio, ma lo specchio rimanda l’immagine di una folla. Uno, tutti e centomila. E’ un’operazione sofisticata. Lo scandalo alla vaccinara o c''a pummarola trasmette l'esistenza di un altrove folkloristico, fosco, un posto dove si fa così, si vive così, voi che ci volete fare, quelli mica sono uguali a noi.
E' un metodo. Si applica ad alcune città, solo ad alcune parti del Paese. Dove non si racconta mai di una condotta sbagliata, di un errore, un fallimento, un’imprecisione, dell’inadeguatezza di una persona. Mai. Non si racconta mai solo quello. In quella condotta c’è sempre il ritratto di un popolo, una radice che deve rispondere di un frutto guasto. L’imputato è davanti a uno specchio, ma lo specchio rimanda l’immagine di una folla. Uno, tutti e centomila. E’ un’operazione sofisticata. Lo scandalo alla vaccinara o c''a pummarola trasmette l'esistenza di un altrove folkloristico, fosco, un posto dove si fa così, si vive così, voi che ci volete fare, quelli mica sono uguali a noi.
Successe finanche con il comandante Schettino, l’uomo della sciagura
del Giglio. C'erano dei morti, non c'era nulla di più da aggiungere. Ma a un certo punto divenne elemento centrale di racconto della
tragedia e delle responsabilità dell'uomo anche il suo vocabolario, il suo “vabbuò” detto
alla radio. Un elemento di derisione da aggiungere alla colpa. Era il dettaglio
che rendeva perfetto il ritratto. Vabbuò. Metterlo in risalto significava sottolineare
che di un uomo che parla così, con quell’accento, non ci si può fidare. Non è
Baricco che parla di libri in tv e in dialetto, nel suo dialetto, dice Bon. Schettino
dice vabbuò, noi diciamo vabbuò.
'Ncoppa ‘a
gaffe assolve allo stesso compito. E’ il condimento etnico che in certi casi non
deve mancare. Non è sufficiente raccontare con i fatti il malgoverno di De
Magistris, come tante inchieste giornalistiche hanno già fatto in questi anni
mettendo in fila gli errori del sindaco. Servono le spezie. 'Ncoppa ‘a gaffe.
Serve la citazione della più disturbante canzone napoletana che esista,
scurdammoce ‘o passato, simmo ‘e Napule paisà, l’evocazione della rassegnazione,
dell’immobilismo, delle infezioni di Napoli. L’uso del dialetto napoletano serve
a rimandare a un mondo che nella migliore delle ipotesi è spensierato quando
non dovrebbe, un mondo lacero, lazzarone, cencioso. 'Ncoppa ‘a gaffe.
Come già per
i casi Makkox e Cardito, Napoli deve essere sempre e solo schiuma, ammuina, ‘a
Madonna, ‘a processione, i chitemmuòrto e i chitestramuòrto. Anche quando il
condimento non aggiunge nulla. Anche quando la carne a cuocere già da sola
sarebbe tanta. E poi i barocchi saremmo noi.
Pensate cosa
si direbbe se l’ordinanza dei gelati del sindaco milanese Pisapia fosse stata
partorita a Napoli. Oggi il Corriere ne parla in modo leggero e spiritoso, con
un dialogo ipotetico tra un consumatore e un amministratore pubblico. Ebbene,
non c’è una sola parola che stavolta faccia humus. Il consumatore dice: “A me
piace mangiare il gelato camminando nell'aria della sera”. L’amministratore gli
fa presente: “Puoi leccare, ma solo nelle chiuse stanze della gelateria”. Lindo, pulito, candido. Nemmeno uno che si rivolga all'altro chiamandolo
dotto’. Bon, direbbe Baricco, lasciamo stare.
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