Dunque era un falso. Il video di Cardito era un falso. La "trama" la conoscete. Un uomo di mezza età, impacciato nel fare manovra con la sua auto, blocca una strada. Per ore, c'è scritto nella didascalia. E comunque questa è la verità che lentamente si diffonde con il passaparola, amplificato dalle condivisioni in rete. Per ore. L'uomo blocca auto e moto (una delle quali trasporta un prosciutto). Blocca una strada, un paese, blocca pure una processione della Madonna. L'uomo anziché provare imbarazzo si infuria per le proteste della gente, alla fine con l'aiuto del parroco riesce a fare manovra e ad andare via. Finito. Il video è questo. Tutto qui.
Fa il giro dei siti e dei social network, qualcuno intuisce e ne ride.
Dai, ma com'è possibile?
Eppure il video finisce in televisione. Il vero punto della storia è questo. Le immagini di Cardito finiscono nei tg delle reti Mediaset. E' lì che diventano documento. Diventano rappresentazione di vita napoletana. A tutti gli effetti. La Madonna, la processione, il traffico, gli insulti della folla, i chitemmuòrto e i chitestramuòrto. C'è tutto, giusto? E' Napoli, guardate qua. Il tg sfotte, come riferisce stamattina Angela Marino sul Corriere del Mezzogiorno. Il tg si prende la pizzicata. Quando invece - si scopre - che il video di Cardito è il lavoro di una compagnia teatrale. Il prete è un attore professionista, si chiama Antonio Gioiello. E mentre le tv stanno mandando in onda la scenetta, la rete la sta già denudando, la rivela per quel che è. Un fake.
Cosa resta di questa storia? Rimane il fatto che quel video falso è stato percepito, accettato e proposto come realtà napoletana. Perché era verosimile. Perché per raccontare Napoli ormai basta quella, la verosimiglianza. Basta l'aderenza di una scena o di un evento a un modello prestampato. Era già accaduto per la storia dell'albero di Natale rubato a dicembre 2011 in Galleria. Si scoprì che l'albero non era stato rubato. Era rimasto sempre lì. Ma la storia era così verosimile, giacché accaduta in passato, da essere ridiventata vera pure adesso che era falsa. Questo format si basa su un tag facilmente smerciabile, vendibilissimo, il tag "cose che succedono solo a Napoli": una piantina che noi stessi napoletani spesso provvediamo ad innaffiare con cura, a volte con esibito orgoglio per la nostra irresistibile simpatia.
Come già detto all'epoca dell'albero di Natale, è questo il fenomeno che Francesco Durante ne "I napoletani" (ed. Neri Pozza) chiama "agnizione della napoletanità". E' suggestione. E' l'evocazione di un mondo con la sua tradizione, la sua simbologia, il suo patrimonio folcloristico. Se una cosa su Napoli sembra reale, allora quella cosa su Napoli diventa reale.
Per questo motivo, qualche giorno fa, c'era qualcosa di disturbante nella elogiatissima striscia con cui Makkox sul Post si divertiva a raccontare il caso dei bus rimasti senza gasolio a Napoli. Una striscia geniale. In molti, moltissimi punti. Ma deludente nel ritratto dei passeggeri, ridotti a macchietta. Come se pure l'indignazione di Napoli di fronte a uno scandalo di tale portata non meritasse altro che il cliché. La macchietta. La barzelletta. Non meritiamo che sia presa sul serio neanche la nostra indignazione. No. Noi siamo i chitemmuòrto e i chitestramuòrto. Dice: ma è una striscia. E' satira. La satira vive di parossismi. Estremizza il luogo comune, mastica i tipi, rumina i tratti riconosciuti, poi risputa tutto addosso. Lo so. Dice: era una striscia surreale. Be', fino a un certo punto. Più che surreali i passeggeri erano usciti da un frullatore di scenette e bozzetti da barzelletta ("fermi tutti è una rapina", "marò che paura pensavo che era il controllore", per intenderci). Ma la cosa interessante è che quella striscia geniale è piaciuta di più ai napoletani residenti in città, meno a chi dalla città s'è allontanato. Secondo me perché i primi, i più esasperati dal disastro dei trasporti (giacché lo vivono) hanno impugnato il surrealismo di Makkox come un vessillo di protesta. Mentre ai secondi, ai "fuoriusciti", brucia l'esperienza di incontrare ogni giorno persone che interpretano quel surrealismo come realismo. Del resto, i napoletani residenti sono più propensi ad accettare che di loro si dica ogni male, come ha ben scritto Vittorio Zambardino sul Napolista a proposito di un'altra vicenda (il razzismo negli stadi). Lui la chiama mitridatizzazione a ogni empietà, "mentre noi che viviamo fuori abbiamo un'aspirazione di dignità e pari dignità per il nostro essere napoletani nel mondo". Ai nostri figli dicono monnezza a scuola, li prendono in giro durante l'intervallo perché pronunciano vèrde anziché vérde, e onestamente se ogni volta Napoli è solo schiuma, ammuina, la Madonna, la processione, i chitemmuòrto e i chitestrammuòrto, un poco alla fine ti rompi pure il cazzo.
Surreale su Napoli è ben altro. Penso al Ruggero Cappuccio di "Fuoco su Napoli" (ed. Feltrinelli), oppure a Ivan Polidoro con "Le coincidenze" (66thand2nd), ad Alessio Arena di "Il mio cuore è un mandarino acerbo" (ed. Zona). Surreale era la deliziosa storia di Antonio Menna, "Se Steve Jobs fosse nato a Napoli" (Sperling&Kupfer), dove i luoghi comuni si fermano un attimo prima che siano già stati ruminati. Il grottesco è la grande chiave, oggi, per raccontare Napoli. La sola, forse. Ma il grottesco, per definizione, è tale se è inspiegabile, se va contro il senso comune. Se allibisce, non se si compiace. La prossima volta che vedete un vecchietto che blocca il traffico, la processione che passa, il prete che aiuta a fare manovra, la folla che batte le mani, dai, cambiate canale.
1 commento:
Un bellissimo articolo, molto profondo e attento a tutte le sfumature che da queste becere vicende escono fuori. Complimenti ancora, non essendo napoletano ma comunque del sud, mi compiaccio quando assisto a queste manifestazioni di protesta ben motivata. Saluti, un pugliese.
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