sabato 21 luglio 2018

La partita che si giocò in una sola metà del campo

La polizia municipale si presentò allo stadio un attimo prima che fosse battuta la palla al centro. Gli austriaci erano tutti schierati, secondo l’ordine che li aveva resi celebri nel mondo [1]. Josef Bican si spazientì perché aveva già piazzato la suola della scarpa sul pallone e nessuno fino a quel momento lo aveva mai obbligato a tirare il piede indietro. Ma il tenente era stato perentorio, aveva tra le mani un foglio di carta che non lasciava spiraglio agli equivoci, chiese di potersi appartare con i due allenatori e a loro per primi comunicò che la partita non poteva cominciare. Marcello Lippi aveva mezzo consumato il quarto Mercator della sua giornata, Hugo Meisl pensò che come al solito, con gli italiani di mezzo, c’era sempre qualche casino che spuntava, ma nessuno dei due aveva alcuna intenzione di rinviare. “Ho qui la relazione definitiva della commissione d’inchiesta sulla staticità dei campi di calcio di tutta la Cacania” [2], disse il tenente allargando le braccia, quasi scusandosi, “e l’analisi finale della commissione di vigilanza sull'agibilità. Metà campo sorge su sottosuolo vuoto. Mi duole comunicarvi che non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie per giocare”. Disse così, disse proprio: mi duole, e senza neppure attendere una replica, voltò le spalle e si avviò verso i cancelli ai quali mettere i sigilli.


Bican lasciò il centro di metà campo e si accostò al capannello che si era creato. Non temeva più conseguenze dal giorno in cui sua madre, per la prima volta in tribuna per vederlo giocare, era scesa in campo armata di un ombrello per picchiare il ragazzino che lo aveva steso con un calcio. Si guardò giusto attorno un attimo per essere certo che stavolta lei non ci fosse.
“Avrei un’idea” mormorò.
Il tenente si indispettì e rispose che con gli sconosciuti non parlava.
“Lei conosce Pelé?” gli domandò Meisl.
“Lo conosco bene Pelé. Ma quest’uomo è bianco”, rispose l’ufficiale.
“Intendevo solo farle presente”, aggiunse Meisl, “che se lei conosce Pelé, avrà piacere di sapere che il signore qui presente ha segnato due gol più di lui”.
“Balle”, tagliò corto il tenente, “non mi risulta. Come mai non ha raccontato a nessuno del suo record?”.
“Perché non ne vale la pena” spiegò Bican, “tanto non mi crederebbe nessuno”.

Più dei suoi 757 gol, fu la risposta arguta ad ammetterlo al cospetto degli inviati della commissione di vigilanza affinché dicesse come la pensava. “Se metà campo sorge sul sottosuolo vuoto, perché allora non giochiamo solo nell’altra metà?”. L’ipotesi che all’inizio pareva campata in aria, aveva il pregio di essere rispettosa della legalità e di esaudire i desideri di entrambi gli allenatori. Si discusse a lungo e si considerarono i termini della partita. Meisl, che era figlio di un banchiere, si domandava se giocando solo sulla metà dello spazio previsto, anche i gol dovessero valere la metà. Lippi consultò i senatori e offrì la soluzione ai rappresentanti austriaci. “Per noi va bene. Nella metà campo inagibile, lascerete solo il portiere a guardia della vostra porta, e invece giocheremo tutta la partita di qua, nella nostra metà campo. Tanto - e qui fece un ghigno - ci siamo abituati”. Il portiere rispondeva al nome di Platzer, e se ti chiami Platzer non è il ghigno di Lippi che ti spaventa. Il numero uno del Wunderteam camminava con prudenza guardando bene dove posare i passi, ma più avanzava e più s’accorgeva che il terreno sotto i suoi piedi era in discesa. La salita stava di fronte, fra l’Austria e la porta scelta dagli italiani. Cannavaro sbirciò tra le fila degli austriaci e chiese alla panchina: “Lo prendo io quello magro?”. “Attento a non spezzarlo” si sentì rispondere ridendo e verso il numero nove trottò, si chiamava Sindelar, biondo, gli occhi blu, dal corpo leggero e trasparente come uno di quei fogli lucidi usati per proteggere le foto all'interno degli album [3]. Veniva un poco sotto Dio per gli austriaci che non amavano gli eccessi, e per tutti quanti gli altri - la maggioranza - non c'era palio tra l'architetto dei cieli (e della terra) e il centravanti che faceva pubblicità ai cappotti Tlapak, agli orologi Alpina-Gruen-Pentagon, ai formaggi della fattoria Ender.

Dinanzi a tanto intrepido slancio muscolare di Fabio Cannavaro, in tribuna si allarmò Camilla, la donna di Sindelar, che in quanto milanese sapeva bene fin dove possono spingersi gli ardori italici. Si guardò attorno per controllare se ci fosse qualcuno a sorvegliarla, e credendosi libera fece al suo uomo da lontano un gesto con le dita, i pollici delle due mani che si toccavano alla base, gli indici chiusi poco sopra, sembravano due metà di una mela senza picciolo, o forse un cuore. [4]
Il numero quattro, Wagner, intanto si avvicinò in campo a Pirlo, si presentò e gli domandò se fosse lui il calciatore che chiamavano Mozart, cosa che accese un piccolo equivoco durato un paio di minuti su musicisti, identità vere e presunte, omonimie. Presto Pirlo s’accorse che del suo lancio stavolta l’Italia non avrebbe saputo cosa farsene, senza l’altra metà del campo in cui accendere la corsa di Camoranesi o di Perrotta. Toni si piantò davanti alla difesa, quasi a pestare gli alluci all'eponimo Gattuso, mentre Totti invece ridacchiava, divertito da quella sfida assurda che dimezzava tutto, fatica spazi e dunque pure il tempo. “Potessimo gioca’ sempre su questo campo” disse “andrei avanti fino a ottant’anni”. Sindelar deliziava. Ma Lippi aveva abituato troppo bene i suoi a governare palla e partita solo nella propria metà campo. Per cui quando gli austriaci si facevano sotto l’area di rigore, Cannavaro piazzava l’anticipo suo e poi avanzava palla al piede, finendo per depositarla dopo tre o quattro passi fra le più sapienti protuberanze del Maestro. Alla peggio, alle spalle di tutti, vigilava Buffon, che per tre volte intervenne su Bican nel primo tempo e altre due dopo l’intervallo, quindici minuti che il Wunderteam trascorse in dieci dentro lo spogliatoio, giacché non venne considerato troppo prudente lasciare che Platzer abbandonasse i pali. “Se ti muovi, potrebbe franare tutto” gli gridò Lippi, e Meisl annuì, perché i filosofi soccombono, ma soccombere non sempre vuole dire: perdere.

Fu a una ventina di minuti dalla fine che Cannavaro entrò in anticipo ancora una volta su Cartavelina, il petto contro la spalla, un contrasto ruvido quanto bastava per spostarlo e prendersi la scena. Stavolta non avanzò ma mezzo sbilanciato colpì la palla con l’intento di mandarla laggiù, lontano, dove nessun austriaco potesse più raggiungerla. Solo che esagerò. S’impennò il pallone verso il cielo e da lassù discese con ferocia come un chicco di grandine in Veneto d’inverno, dritto in picchiata verso Platzer, che non aveva messo in conto questa circostanza, tanto che non intervenne, spiazzato, e dal pallone si fece scavalcare. Senza mai attraversare la propria metà campo, l’Italia aveva vinto, e il tenente della polizia municipale certificò che era tutto in regola, facendo un cenno verso la cabina radio di Orazio Pánama, che in tedesco diede la ferale notizia a Vienna e in italiano cantò per Roma l’apologia di una destrezza.
Sindelar voltò le spalle al microfono di Orazio, al campo e al calcio, si lasciò dietro quel mondo che non capiva più e si avviò verso una strada oltre la quale si scorgeva il tramonto, con la testa bassa, come sanno tenerla solo non i perdenti, ma quelli che nella sconfitta sanno di restare eterni [5].


Il tabellino della partita
Italia 2006 c. Austria 1934 1-0
Italia 2006: Buffon; Zambrotta, Grosso; Gattuso (dal 60’ De Rossi), Cannavaro, Materazzi; Camoranesi, Pirlo, Toni (dal 77’ Gilardino), Totti, Perrotta (dal 70’ Del Piero).
Austria 1934: Platzer; Cisar, Sesta; Wagner, Smistik, Urbanek; Zischek, Bican, Sindelar, Schall (dal 60’ Horvath), Viertl.
Arbitro: Tenente Lindner
Rete: 72’ Cannavaro.

Note al testo
[1] Andrea Schianchi sulla Gazzetta dello sport del 13 giugno 2016 riassume così: "Gli inglesi praticano, dopo il 1925, il WM o Sistema; gli italiani e i sudamericani si affidano al metodo; il calcio danubiano vuole passaggi corti e precisi in opposizione ai lanci lunghi degli inglesi, all'anarchia del Rio de la Plata e alla manovra già allora piuttosto abbottonata degli italiani. Il centravanti è il giocatore-cardine della squadra, colui che deve impostare la manovra, arretrare, lanciare, duettare, consentire alle mezzeali di inserirsi in zona-gol [...] Quell'Austria passerà alla storia come il Wunderteam, la squadra delle meraviglie". Ancora Andrea Schianchi, su la Gazzetta dello sport, il 28 luglio 2014: "Nel 1932 l’Austria sfidò a Stamford Bridge proprio l’Inghilterra, perse 4-3, ma si guadagnò gli applausi del pubblico, incantato da quel gioco di passaggi che era una specie di sinfonia".

[2] "La Cacania infatti era il primo paese, nell'attuale periodo dell’evoluzione, al quale Iddio avesse tolto il credito, il piacere di vivere, la fiducia in se stesso e la capacità di tutte le nazioni civili di diffondere la vantaggiosa illusione che esse abbiano una missione da adempiere. Era un paese intelligente e albergava persone colte; come tutte le persone colte in tutti i luoghi della terra, costoro s’agitavano in una spaventosa confusione di rumori, velocità, innovazioni, controversie, e tutto il resto che fa parte del paesaggio ottico e acustico della nostra vita, senza poter giungere a uno stato d’animo ben definito; come tutti gli altri, anch'essi leggevano e sentivano ogni giorno qualche dozzina di notizie che li facevano orripilare, ed eran pronti a mettersi in moto, a intervenire, ma non ci arrivavano mai, perché, un momento dopo, l’eccitazione era già scacciato da un nuovo eccitamento; come tutti gli altri, anch'essi si sentivano circondati da delitti, ammazzamenti, passioni, spirito di sacrificio, grandezza, che in qualche modo avvenivano nel gruppo formato intorno a loro; ma non potevano accedere a queste avventure, perché erano imprigionati in un ufficio, in una professione; e quando verso sera tornavano liberi, la loro tensione, di cui non sapevano più cosa fare, esplodeva in divertimenti che non procuravano loro nessun divertimento. Non sapevano più dove andasse a finire il loro sorriso, il loro sospiro, il loro pensiero". (Robert Musil, L'uomo senza qualità, 1930-1943)

[3] Il soprannome di Sindelar era Cartavelina. Hugo Meisl lo indicava come il simbolo supremo del Wunderteam, perché sprovvisto di muscoli ma con un gran cervello. Vittorio Pozzo, ct dell'Italia dell'epoca, lo descriveva così: "Pareva piatto, sottile, trasparente, come se - scusate la frase alpina un po' irriverente - la madre ci si fosse per errore seduta sopra appena nato. A vederlo giocare si trasformava. Era il padrone della palla, l'artista della finta".

[4] Nel recensire il libro di Nello Governato, La partita dell'addio, il 22 febbraio 2007 sul magazine del Corriere della sera così scrive Antonio D'Orrico: "Camilla Castagnola, una italiana che ha conosciuto durante il Mondiale di calcio 1934. Da fidanzata gli scriveva da Milano raccontandogli gli articoli che leggeva sulla Gazzetta dello sport. (...) Strane lettere d'amore dove, some sotto un codice cifrato, lei diceva che gli voleva bene scrivendo che Fulvio Bernardini non lo facevano giocare nella nazionale italiana perché era troppo bravo (e questo è forse il sofisma che spiga l'italianità per sempre). Camilla è ebra e non è il tempo migliore per esserlo. Anche di Sindelar corre voce che sia ebreo. Lui non sa niente di preciso a riguardo e non gli importa di accertarlo". Governato scrive nel suo libro a proposito: "In quel tempo, e Matthias lo ripeteva spesso, chi credeva in se stesso credeva di essere ebreo".

[5] Dopo l'Anschluss di Hitler, Sindelar rifiutò di giocare per la Germania. Gobbels dichiarò: "I viennesi hanno un loro idolo, il grande calciatore Sindelar. Vogliamo credere, anzi siamo sicuri, che Sindelar sarà sempre degno di questa stima anche negli impegni futuri". Un mese dopo la sua ultima partita con la maglia dell'Austria Vienna contro l'Hertha Berlino, il 23 gennaio 1939, Sindelar fu ritrovato morto in circostanze misteriose nel suo appartamento in rue Anna 3, vittima di un avvelenamento da gas, insieme con la sua compagna italiana ed ebrea, Camilla Castagnola. Su Le Monde del 7 giugno 2008 Benoit Hopquin scrisse: "Vienna preferì costruire un altro epilogo. Afferrò il mito di Sindelar, soprattutto dopo la guerra, ansiosa di dimostrare che non avrebbe aderito mai pienamente al nazismo. Chi parlò di un suicidio motivato dal rifiuto di vivere nel nuovo ordine che stava emergendo. Chi parlò dell'assassinio in stile nazista di un avversario troppo popolare". Lo scrittore Alfred Polgar scrisse per lui questo necrologio: "Vivere e giocare a football in una città tormentata, distrutta e oppressa, avrebbe significato tradire Vienna. Ma come si può giocare a calcio così? E come si può vivere , quando la vita senza il calcio è niente?". Sindelar è sepolto nel cimitero di Vienna, non distante dalle tombe di Beethoven, Schubert, Brahms e Strauss.

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