Sarà per via di questo ricordo e della «nostalgia del futuro» che ha voluto un album a tema (Un piccolo Natale in più) su una certa idea di questi giorni. «Il Natale una volta portava con sé la promessa di un futuro migliore, i film in bianco e nero in tv, il lieto fine. Venivi accompagnato come da un senso di ricostruzione, una rinascita. Era l'Italia che si rialzava e ricostruiva. Oggi non si costruisce più nulla. Siamo tra i Paesi che producono meno architettura, al domani non pensa più nessuno». Alle spalle una libreria da cui sporgono volumi coi lavori di Calatrava. È stato il suo percorso di studi, chiuso otto anni fa con la laurea in architettura, una tesi sul gazometro di Roma, altro luogo fatato dell'infanzia, fatato e misterioso: lui che si chiede come farà mai a starci il gas chiuso lì dentro, pa' dimmelo tu, e il padre gli racconta che quel cilindro è magico.
È la stessa magia che Baglioni ha incontrato in una vita spesa in mezzo alle parole, compagne di un viaggio benedetto. In quarantadue anni di carriera ne ha scritte 41.487, perlopiù consacrate a quella leggerezza che gli è stata rinfacciata, e dietro la quale c'erano però uno sforzo e una tensione allo studio rimasti sommersi. «Negli anni Ottanta, per scrivere Strada facendo, mi preparai con i testi della Beat Generation. Prima d'allora avevo vissuto una fase d'innamoramento per Pasolini. Il Pasolini poeta di Monteverde, dico. Ero attratto dal post neorealismo, dai racconti delle periferie, dalle opere d'arte partorite fra il '55 e il '60, quelle prima del boom, prima di Capri e Palma de Maiorca. E poi il richiamo dei poeti francesi, il fascino di Ezra Pound e Eliot, che ho riletto in lingua originale perché la poesia vive anche delle suggestioni del significante». Fino al Garcia Lorca omaggiato in uno dei suoi pezzi più felici, Fotografie (1981), l'orizzonte di cani che abbaia da lontano e una lei sporca di bacie sabbia, come la sposa infedele. È stata questa la filigrana insospettabile e intima nel lavoro di un cantautore accusato di troppa dolcezza, e che a sessantadue anni confida la sua soggezione al cospetto delle parole.
«Quando avevo 16-17 anni, tra i compagni che frequentavo ce n'era uno che chiamavamo "il letterato". Credo che oggi abbia un'agenzia pubblicitaria. Al "letterato" nel nostro gruppetto veniva riconosciuta una certa abilità nel comporre testi. Ma in fondo io mi dedicavo alla musica per non essere trasparente, cantavo e suonavo per farmi guardare un po' di più dalle ragazzine e farmi invidiare dai ragazzi alle feste. E farsi scrivere le parole dal "letterato" sarebbe stato come avere una bella macchina e lasciarla guidare a un altro». Cantautore per caso. Per orgoglio. Baglioni sussurra perfino per superbia. «Eppure conservo un rapporto doloroso, quasi schizofrenico con la scrittura. Scrivere in italiano, poi, è complicatissimo. Prova ne sono i libretti delle opere liriche, in molti casi veri obbrobri. Un amico sostiene che si canti di proposito con voce impostata perché non sia riconoscibile il senso. Il testo perfetto esiste, come no: penso a La cura oppure a Povera patria di Battiato, anche se non so riconoscerne uno bello slegandolo dalla sua musica. A maggior ragione se parliamo di Battiato. E poi c'è l' intera opera di De Gregori a confermarlo. Negli anni '70, dopo una baruffa iniziale, di Francesco sono diventato amico. Ho sempre invidiato la sua capacità di scrivere, glielo ho ripetuto spesso. A me le parole hanno fatto dannare».
Lo dice lui, che un anno fa ha messo in musica gli articoli della Costituzione. «Ho il timore di chi è bravo a maneggiarle. Poeti, giornalisti, avvocati. Una volta dovevo incontrare Alberto Bevilacqua, ne ero terrorizzato. Stessa cosa prima di un appuntamento con Erri De Luca. Da cantautore mi sento un cuginetto povero dinanzi a quelli che sanno scegliere l'esattezza del termine. A Erri, dopo aver letto il suo Solo andata, feci una proposta: dovresti scrivere testi per canzoni». Baglioni confessa di aver avuto pure la tentazione di cercarsi un Mogol. «L'ho pensato. Poi tornavano in mente il letterato e la solita macchina da far guidare a qualcun altro». Le parole più usate da Baglioni negli anni Settanta sono: me, te, amore e ancora. Poi vengono gli Ottanta, e le parole più frequenti diventano: cielo, notti, adesso. «Intorno a me c'erano i cantautori dell'impegno. Io ero indicato come l'esempio di ciò che non si doveva fare. Una cosa che ho sofferto». L'ambiente esigeva che con cuore e amore facesse rima cassa integrazione. «Ho commesso anche degli errori per assomigliare a ciò che non ero». L'etichetta del disimpegno s'è poi dissolta negli anni Novanta (parole usate più di frequente: mai, senza, dentro, domani), quando nei pezzi di Baglioni finiscono Chernobyl e l'Heysel, Tienanmen e Gilgamesh; quando la canzone Noi no diventa un grido di ribellione contro la mafia durante un concerto a Palermo, oppure con l'arrivo della musica sociale e del festival dell'accoglienza a Lampedusa, ogni settembre, dal 2003. «A dimostrazione che di luoghi comuni, prima o poi, moriremo tutti». Eppure c'era anche il giovane Claudio a Valle Giulia, a occupare le aule in assemblea. Solo che dagli scontri si teneva lontano, per via del papà carabiniere. Finanche il cliché del disimpegno avrebbe potuto non nascere mai. Baglioni oggi ne parla sorridendone.
«Questo piccolo grande amore aveva una parte introduttiva in cui raccontavo di una manifestazione di piazza. Una porzione di testo era anti-bellica, antimilitarista. Ma il direttore artistico d'allora della Rca, Ennio Melis, volle che la tagliassi. Mi disse: una volta tanto che si trova uno bravo a parlare d'amore... ma perché vuoi mischiare i due piani? Forse aveva ragione lui. All'epoca ero un idolo nell'Europa dell'Est. Avevo vinto un festival in Polonia, in una sera guadagnavo dieci volte quello che metteva in tasca un ingegnere in un mese. In Italia non ero niente, uno sconosciuto, con il pezzo Notte di Natale ero arrivato due volte ultimo alla Gondola d'argento di Venezia e al premio Caravella d'oro di Bari. Allora telefono a mia madre dalla Cecoslovacchia e le dico: guarda che non torno più, rimango qui. L'album Questo piccolo grande amore rischiò di non uscire. Toto Torquati, il pianista cui si deve la celebre introduzione, mi tenne a parlare fino alle 6 del mattino per convincermi. Alla fine cedetti: va bene, gli risposi, finiamolo questo disco, andrà malissimo e sarà la prova che non mi avete compreso». Invece il disco entra in classifica a Natale- rieccolo, il Natale- rimane al secondo posto per un mese, poi una in fila all'altra arrivano E tu, Poster, Sabato pomeriggio, insomma succede che Claudio diventa Baglioni. «Non ho avuto per genitori delle persone che contrastavano il figlio canzonettiere. Anzi. Mia madre ripeteva: ti conviene cantare, così non ti rovini gli occhi sui libri. Poi gli occhi me li sono rovinati lo stesso. Ma ai concorsi canori che si tenevano su ai Castelli arrivavano i parenti dell'Umbria con la corriera per farmi la claque. I miei avevano investito perché ce la facessi. Una volta un tipo fece capire a mio padre che si dovevano tirar fuori 80mila lire se volevo incidere un disco. Quella cifra era un terzo del suo stipendio, eppure mio padre fu tentato, ci pensò. Per dire quanto a casa ci tenessero. Del resto, ci pensò pure quando dovette fare le cambiali per comprarmi il primo pianoforte».
Quarantunomila parole dopo, tra i sette concerti natalizi di Roma (Dieci dita, 26 dicembre-3 gennaio) e i sette in programma a Milano (10-16 gennaio), Baglioni s'è rimesso a comporre. «Con la matita e il pentagramma. Non registro più. La musica la scrivo, perché la tecnologia d'oggi con i suoni campionati e gli arrangiamenti precotti rende tutto accettabile. Invece voglio che si impongano solo gli spunti davvero felici: allora scrivo le note e chiedo ad altri di eseguire quel che c'è sul pentagramma. Non compongo neppure più in silenzio. Il silenzio è come la tecnologia. Rende tutto migliore di quel che è. Quando scrivo, adesso, tengo la tv accesa. Così per affermarsi le idee devono essere più forti, devono saper superare la barriera di quel rumore». Dice che il prossimo album sarà una serie di biografie di personaggi pubblici, forse riconoscibili, ma senza nome, camuffati. «Personaggi che partono tutti insieme d'estate per un'avventura comune. Una sorta di Easy Rider in musica. Alla ricerca di un significato. Sarà un disco interamente inedito. Dopo dieci anni. Con la voglia di proiettarsi in avanti. C'è la superbia di una nuova sfida e c'è l' umiltà di sapere che la canzone popolare ha la sua forza in quest'aggettivo. Umiltà e superbia insieme. Di questo, alla fine, noi cantautori siamo fatti».
(Repubblica, 23 dicembre 2012)
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