Tutto possono dirci. E tutto ci dicono. Brutti, sporchi, cattivi. Tutto ci dicono e tutto ci teniamo. Ma antipatici, ah no, antipatici no. Quello è un aggettivo che consideriamo irricevibile. Il piccolissimo caso Marchisio, ecco l’ultima prova. C’è un calciatore della Juve che dà un’intervista, risponde a una domanda in modo schietto e sincero (inconsueto per il suo mondo), e anziché ruminare complimenti ipocriti ammette che il Napoli gli sta antipatico. Allora il Pianeta Napoli s’offende. Si rizela prima di tutto il club che interviene con una nota ufficiale. Si indigna buona parte del tifo. Ma come: antipatici noi?
Antipatici. Noi. E allora? Che c’è di strano? Potrebbe persino essere considerato - non dico un complimento - ma un attestato di stima da chi dell’antipatia altrui ha fatto un vanto. Invece no. Noi no. Perché proprio non possiamo non dirci simpatici. Non ci riusciamo. È scritto dentro il dna dell’homo neapolitanus. È il suo modo di essere. È una maniera di stare al mondo. È quella che Raffaele La Capria chiama napoletaneria. “Qui siamo tutti troppo simpatici, è una città di simpaticoni la nostra. Io la gente simpatica non la posso sopportare”, fa dire a uno dei suoi personaggi ne L’armonia perduta. Siamo prigionieri di quella simpatia servile, della figura del servo che fa il buffone per essere accettato, di “quella napoletaneria inconsistente che ha bisogno di essere riconosciuta e accettata”.
E allora ci offendiamo. E' per questo. Si offende tutta quella Napoli nipotina di Gennariello, l’immaginario ragazzo a cui Pier Paolo Pasolini indirizza negli anni Settanta la sua celebre lettera luterana, scritta per ritrarre una Napoli pura, incorrotta, intatta, piantata dentro il baccanale del boom economico, così, fissa, statica, identica a se stessa. Napoli come ultimo enorme grande borgo di simpatici, gente che mai cambia, mai deve, immutabile. Gli diede addosso Italo Calvino, lo rimproverò di rimpiangere la mediocre Italietta. Così la Napoli che oggi si arrabbia per essere giudicata antipatica dal calciatore Marchisio pare la solita Napolina incapace di mostrarsi cruda nelle sue espressioni, impotente nell’affrancarsi dal virus della compiacenza, una Napolina che forse meno si indignerebbe nell’essere descritta come furba, imbrogliona, lurida, però in fondo tanto affettuosa, ingenua, dal grande cuore, ah quanto è grande il cûohre di Napule.
Ci offendiamo perché è da secoli che alla nostra letteraria simpatia aderiamo. Aderiamo fino al punto di coincidere con essa, fino al punto di forzarci e violentare la nostra natura perfida, per diventare noi essa stessa, per diventare materia letteraria. È da secoli che l’uomo neapolitanus mette in scena i suoi panni ruffiani, allegri, deformati. Un abito da ufficio del turismo che puzza di menzogna. Una recita all’insegna della falsificazione dell’identità che costa sacrificio, impegno. Ecco forse il motivo per il quale ci offendiamo. Tanta fatica per senza niente. Perché un giorno arriva un calciatore e smonta la nostra recita, la disvela, la denuda. Distrugge la finzione che ci riesce meglio, questo Marchisio che soffia un’energia sul vestitino di cartapesta e ci chiama antipatici. Come se tutto d’un tratto fossimo capaci di diventare davvero tanto vitali.
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