Gli ultimi dieci anni della sua irripetibile carriera (marzo 1982-dicembre 1992) si erano svolti nella redazione di Repubblica. Furono gli anni del Mundial di Spagna, del ritorno alle vittorie nelle Coppe europee dei club italiani, dell'arrivo dei più grandi stranieri in serie A (Maradona, Platini, Zico), del boom di medaglie ai Giochi olimpici per gli azzurri. Aveva iniziato scrivendo di Antognoni, il campione non troppo amato (da lui) della Fiorentina al rientro in campo dopo un lungo stop per infortunio, e se ne andò all'improvviso - che tragica coincidenza - dopo un elogio di Trapattoni e della sua tattica italianista, che dell'ideologia sportiva di Brera era una colonna portante. Quel Santo Catenaccio puntualmente invocato prima d'ogni partita chiave del nostro calcio: catenaccio, e non ammucchiata davanti al portiere. Rileggere dieci anni di Brera significa partire per un'escursione della nostalgia fra parole e nomi consegnati alla storia dello sport e del giornalismo italiano. Puliciclone, Rombo di Tuono e Mazzandro, l'Abatino e il Divino Scorfano. È un viaggio fra le sue idee contro corrente (sul doping, sull'autarchia), le celebrazioni dei grandi successi ("In alto le bandiere e i canti", oppure l'altrettanto celebre "Io Triumphe"), i commossi ricordi dei protagonisti scomparsi ("Ti sia lieve la terra"). Tra i suoi personaggi più amati (Bruno Conti, Mennea, Sara Simeoni) e le sue diffidenze (Herrera, Sacchi), nella meravigliosa libertà che poteva prendersi nel cantare la vittoria della Juve in finale di Coppa delle Coppe 1984 contro il Porto, e nelle pagelle di quella stessa partita dare 4 a Paolo Rossi e 4,5 a Platini. Come lui nessuno mai.
(la Repubblica, 19 dicembre 2012)
(la Repubblica, 19 dicembre 2012)
Nessun commento:
Posta un commento