Una volta smaltita tutta l'ammirazione per Ennio Fantastichini e per il mussillo che sfoggia lungo tutto il film; una volta rivissuto attimo per attimo tutto l'innamoramento provato per Elena Sofia Ricci alla quale non si sa perché non propongano tutti i ruoli possibili e immaginabili del cinema europeo occidentale; una volta ammirata la capacità di Ozpetek di intrecciare facce e smorfie degli attori ai tantissimi non-detto di cui è pieno il copione; e una volta ammirata pure Nicole Grimaudo - ecco, la cosa che rimane fra le pagine chiare e le pagine scure del film è la figura del cognato. Quel coglione napoletano, come lo chiama Fantastichini.
A parte il fatto che la figura del cognato da tempo e tempo ha un suo perché. Ma è bello immaginare che Ozpetek abbia pensato Mine vaganti per metterci sotto gli occhi il vero grande pregiudizio indemolibile (si dice indemolibile? forse è meglio indistruttibile) nella nostra società. Ce lo sbatte in faccia all'improvviso in una scena con la violenza di un rovescio di Nalbandian.
Il pregiudizio indistruttibile si manifesta quando Riccardo Scamarcio si porta dietro sua sorella nella fabbrica che il padre gli ha affidato. Lui non ha idea di dove sia finito, e gli manca la ruvidezza necessaria per trattare con fornitori o qualcosa del genere. Perciò si fa accompagnare da lei. E' a disagio. Le chiede di intervenire. Di intromettersi. Di sbrogliare la matassa. E lei lo fa. Lei parla, decisa, il fornitore ribatte che in fondo non sono affari suoi perché lei non lavora lì, e Scamarcio dice Sì che lavora lì, l'ha assunta in quel momento.
E' questo l'istante in cui arriva all'improvviso il cognato. Il marito di lei. Che a sua volta già lavorava al pastificio. Ha sentito tutto. Sa che adesso anche sua moglie lavora là. Così domanda: "E ora le bambine?". Forse Ozpetek suggerisce che è giunto il tempo di un Donne Lavoratrici Pride.
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