Credo d'essere morto così. Per una fotografia sfondo seppia e un estratto di nascita. Mio padre se ne stava in posa avvolto in una canottiera bianca, col fucile a tracolla e i baffetti radi, il ventre pingue, sotto braccio a un'appetibile ragazza somala, lasciva e candida. Avevo imparato da sempre a considerarla l'immagine scandalo della casa, finché non divenne un velo spalancato su altri tormenti. L'appresi dal confronto fra due date, quella del mio compleanno e dello scatto africano. Inconciliabili. Una delle due truffava. O lui era partito tardi per le campagne di guerra oppure ero io a essere arrivato troppo presto. Indagai. Seppi che le date non baravano, seppi che esisteva una terza via. Insomma, il certificato della mia venuta al mondo finì per sollevare l'uomo che chiamavo babbo da ogni responsabilità biologica. Quando l'ho scoperto, c'è voluto poco a ricostruire il resto. La faccio breve. In piena Resistenza, i tedeschi rastrellavano l'Italia, e mia madre se li fotteva.
Sono venuto biondino, chiaro nella carnagione, più abbondante di efelidi che di melanina. Mia sorella uguale, mio fratello maggiore no, lui è la fotocopia del boss. Non ho immaginato nulla fino ai miei trent'anni. Poi ho raccolto qualche vaga ammissione intorno a me. Non ridete, ma l'ho presa male. Mi ammazzava un pensiero insopportabile. Le gambe su cui ero stato a cavalluccio, esattamente quelle, nel cuore della seconda guerra mondiale avevano trovato modo, tempo e capriccio d'aprirsi generose alla furia gaudente di genitali teutonici. Disinvolti pure, jawohl, se non s'erano fatti scrupolo di lasciare una doppia traccia nell'albero genealogico della mia famiglia. Ci vuole una personalità di un certo tipo per vivere da figlio di padre ignoto. Io forse ne avevo un'altra.
Facciamo così, togliamo il forse. Hai voglia di scherzarci su nelle lunghe tavolate di Natale, al cospetto della tovaglia rossa, le candele, il presepe e le palle che girano. Per te Kartoffeln? Niente crauti? Oh Tannenbaum, oh Tannenbaum, wie grün sind deine Blätter. Più in là m'accorsi che l'elica del dna alemanno m'aveva davvero consegnato qualcosa. Certo non la propensione alla lettura di Goethe o Schiller. È che reggevo bene la birra, compagna fedele dei miei giorni operai al freddo o sotto al sole. M'invaghii definitivamente di lei quando si rese schiava di tutti i sensi. Facevo entrare in azione per primo il tatto. Una birra dal gusto fresco non si presentava mai né pesante né corposa. Seguiva l'udito. Dal suono del tappo sollevato ne sapevo giù di più. Il poh secco come una schioppettata era il segnale di un sapore acido, il pfff sbilenco e ignobile una promessa di leggerezza. La vista aveva il compito di scrutare la schiuma, abbondante e compatta in una weissbier, finissima e bruna in una stout irlandese, quasi inesistente in una bitter ale. M'ero imposto una regola. I compiti dell'olfatto dovevano esaurirsi in sole tre o quattro sniffate, perché l'alcol non narcotizzasse le terminazione nervose rendendole insensibili. Fui al colmo dello stupore il giorno in cui scoprii che una weizen profuma di banana, e una doppelback di cioccolato. Me ne ho trovate altre che liberavano odori di cuoio, medicinali o vernice. Eppure, le papille restavano regine del mio rito. Non mi negavano mai la distinzione fra il calore dell'alcol e la freschezza del lievito, annegando se stesse e me nei toni dolci e rotondi del malto, poi in quelli vegetali e amari del luppolo, tutti concentrati nella coda d'un sorso. Era tale la confidenza nei miei riguardi, che la birra un giorno volle svelarmi di lasciarsi meglio apprezzare in ambienti bene illuminati. L'avrei trovata insuperabile senza alcun profumo né deodorante addosso. Provate, un giorno mi farete sapere.
Il vino no. Il vino mi era ostile. Due bicchieri bastavano a darmi un'iniziale illusione di benessere, un effetto ansiolitico ed euforizzante. Il terzo mi coglieva incerto sulle gambe, il quarto mi rendeva un altro. Un intronato senza alcuna vocazione alla violenza, semmai allo sproloquio. Non che avvertissi nitido dentro di me un delirium tremens da cui affrancarmi, al risveglio sapevo quasi sempre ridere dei miei abusi, senza doverli per forza collegare a fallimenti personali o ai traumi di famiglia. Ma ogni volta che m'accostavo al vino, ne uscivo in frantumi. E ogni volta era sempre più impellente il bisogno di andare in mille pezzi. Tanto che si trasformò in urgenza. I pettegolezzi dei condomini lo chiamavano vizio, a me pareva un atto spesso doloroso, eppure mai privo di necessità. Bere era diventata un'abitudine non meno frequente dei misteri gaudiosi e gloriosi che le bizzoche incontrano fra i grani e le avemmarie dei loro rosari. A modo suo era anche per me un incontro mistico. Noè è stato il primo nella storia a ubriacarsi. Gesù Cristo scelse di moltiplicare otri di vino a Cana. Filippo Neri riempiva il calice della messa fino all'orlo, per essere più vicino a Dio. Allora a Iddio io gli andavo fra le braccia. Era diventato del tutto naturale, come battere le palpebre degli occhi dinanzi a uno spavento. Sembrerà strano, ma penso d'essere stato un padre premuroso e un marito fedele persino quando la mia dipendenza dalla bottiglia si rivelò invincibile.
D'invincibile, dentro, avrei presto avuto altro. In uno sfondo di cellule linfoidi mature, presi a ospitare una popolazione neoplastica dispersa di media e grossa taglia dalla forma rotondo-ovalare. I nuclei mostravano eterocromatina grossolanamente granulare, i citoplasmi andavano da moderati ad ampi, spesso metacromatici e vacuolizzati al Papanicolaou. Lo studio immunocitochimico dimostrò positività di alcune cellule per citocheratina 8. Erano visibili multiple tumefazioni linfonodali confluenti in latero-cervicale a sinistra, apprezzabili fino al livello della fossa sovraclaveare omolaterale. A ciò che avevano impastato mia madre e il suo tedesco s'aggiunse un tessuto solido e disomogeneo, una neoformazione delle dimensioni di quattro centimetri e mezzo per tre virgola quattro, che mediamente infiltrava il mediastino a sede ilare. Anche adesso, da morto, conservo il vizio di dilungarmi troppo. Ho sperperato un centinaio di parole per una metastasi. È stato il momento in cui mi sono dato ai cocktail. Imparai che li chiamavano così, nell'ambulatorio grigio, stretto e maleodorante dei pochi day hospital a cui seppi resistere. Gli oncologi shakeravano in minacciose sacche di plastica alcaloidi della Vinca, Vincristina e Vinblastina. Divennero i miei nuovi abusi, i soli a cui avrei voluto davvero sottrarmi. Colore limpido, aspetto chiaro, niente a che vedere con quei volgarissimi alchilanti tipo ciclofosfamide, busulfano e clarambucile. L'incontro con la doxorubicina è stata un'esperienza indimenticabile, con la gemcitabina sento che sarebbe potuto nascere qualcosa di più duraturo, invece alla carmustina non sono mai andato troppo a genio. Una cosa reciproca, comunque. Col prednisone e il desametazone siamo rimasti in rapporti freddini. Il minimo: buongiorno e buonasera. Però che gioia in quei giorni di chemioterapia sapere che nausea e stomatite, vomito e diarrea non erano più indisposizioni da combattere con una pilloletta o uno sciroppino. Erano solo il segno di una cura. Almeno non mi son dovuto porre il problema di come regolare l'attività sessuale. Il mio medico suggerì fin nel dettaglio i metodi contraccettivi più efficaci per prevenire eventuali gravidanze, nel dubbio fossero già subentrati danni alle gonadi. Per conto mio me ne ero dato già uno naturale e infallibile, praticato ormai da tempo. L'astinenza.
Non è stata la morte a farmi paura. Semmai i preliminari. Il mio cuore smise di fare il suo lavoro di domenica sera, intorno alle 20,45 ora dell'Europa occidentale, sfiancato dagli acidi da un bel po' assorbiti e dalla fiction che passava in tv a quell'ora. Il guaio vero è che non si muore mai quando si vorrebbe, e oggi sono qui a desiderare un'altra vita. Cioè. Non proprio un'altra, per la precisione. Non vagheggio nulla di karmico, non una metempsicosi, né nuove spoglie o un'identità solenne, miliardaria o patrizia. Chiederei, potendo, qualcosa di molto più piccino e insieme assai più grande. Una seconda esistenza ma la mia. Esattamente la stessa, quella spezzata da questa invulnerabile ripicca di cellule che chiamano il male del secolo. Neppure tutta la vita domando. Cinque minuti anzi, potrebbero già bastare. Ridatemi indietro giusto gli ultimi: non ho rimpianti a cui porre riparo, e non tornerei certo nel mio corpo per cucire pezze a colori sui miei errori. Il fatto è che non sempre si muore con le parole giuste sulle labbra, figurarsi se poteva capitare a uno come me, che aveva fatto fatica a trovarne anche da giovane e in posizione homo erectus, Ne avrei volute di sontuose per il passo d'addio, una di quelle frasi che non si scordano e che colpiscono i lacrimevoli eredi raccolti lì intorno. In genere finiscono per essere tramandate lungo un paio di generazioni, fino al fatale oblio che in genere coincide in prossimità dei pronipoti. Una frase del genere credevo persino d'averla portata sulle labbra, invece sono stato frainteso giusto all'ultimo istante.
"Vado di là" feci in tempo a sussurrare, e chi mi vegliava credette ch'io volessi cambiare il lato del materasso su cui ero adagiato. Da destra mi spostarono a sinistra, demolendo in quel modo l'enfasi e l'ironia con cui progettavo d'accompagnare il mio ultimissimo respiro.
È stato il tormento estremo e forse supremo d'una biografia semplice e breve, fatta di slanci d'allegria e attimi dolorosi. Niente di più che una magnifica vita come tante. Mi sono separato dai miei affetti con un moto di rabbia. Da sette giorni il cancro mi obbligava a letto, svuotato d'energie, proibendomi la passeggiatina con il mio cane, al quale mi univa un destino da bastardo. Oggi, segregato all'umido quaggiù, partecipo del disagio non da poco d'altri graziosi animaletti. Condivido, ed è il caso di dire profondamente. la pena con cui tutti questi vermiciattoli s'affannano intorno al mio corpo, avaro ormai di muscoli e di nervi. Dovranno accontentarsi d'accompagnare il loro pasto scarno con l'acqua piovana che s'insinua sotto il terriccio fradicio. Al posto loro avrei scelto un vinello rosso.
(pubblicato in "Parole di carta", Marsilio, 2002)
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