sabato 1 luglio 2006

Gli ultimi caschi gialli


L'uomo che non voleva cedere si chiama Gaetano Ferrante. Era in cockeria dal 77. «Non voglio smettere, non voglio andare in pensione», la sua risposta iniziale all'offerta della società di trasformazione urbana che ha preso il posto della fabbrica. Lui, l'ultimo dei 18 caschi gialli in servizio a Bagnoli, il quartiere in cui vive, «dove il cielo era rosso e i panni stesi ad asciugare diventavano neri», confessa che «vorrei continuare a lavorare».


Un tormento durato fino alle sette di ieri sera. Quando si arrende e firma l'addio. Il sì al pensionamento come gli altri 17 compagni, e il suo nome viene inserito nell'elenco degli operai attesi stamattina a palazzo San Giacomo da Rosa Russo Iervolino, giunta e mondo sindacale per un saluto e un omaggio simbolico a un'intera generazione di lavoratori dell'acciaio. Una cerimonia partorita dalla segreteria politica del sindaco, guidata da Pasquale Losa, e messa a punto coi vertici di "Bagnolifutura", l'amministratore delegato Carlo Borgomeo e il neopresidente Rocco Papa. Come un'ultima sirena.
Suona per Mario Parisi, che lascia dopo 31 anni. Era uno dei tecnici della colata continua, gestiva il raffreddamento dell' acciaio liquido, 150 tonnellate alla temperatura di 1570 gradi. Domani va in pensione e tra un mese porta all'altare sua figlia Sabrina. «Aspetterò l'arrivo dei nipotini». Casa Parisi, via Nuova Bagnoli. «Avevo il lavoro e mancava l'aria. S'alzava il vento e non si respirava. Ora ho l'aria e mi manca il lavoro». Rischia di andar via senza neppure un ricordo Antonio Annessi, 54 anni, il perito meccanico di Pozzuoli assunto nel '76 a Taranto e trasferito due anni dopo al treno di laminazione di Bagnoli. Fino a oggi è stato responsabile della vigilanza, e proprio a lui hanno portato via il casco giallo dall'ufficio. «Spero sia uno scherzo, ma vanno a ruba. Molti sono finiti negli uffici dei neo assunti perché sentano il legame con la cultura della fabbrica. Mi piacerebbe conservarne uno».
L'ultima sirena per Gaetano Bianco e Antonio Varriale, per Andrea Del Sorbo, Francesco Brugnone e Pasquale Vespe. Pietro Di Napoli, napoletano di Fuorigrotta, era analista dell'acciaio: «La mortalità per infortuni era altissima. Dieci notti di lavoro al mese, Natale, Capodanno. Il trauma grosso fu nel '90 quando chiuse l'area a caldo. Non possono più farmi niente. Mi sono reinventato allenatore di una squadra di calcio a cinque». Giovanni Esposito era all'altoforno: «Tutto lavoro manuale. Cinque ore e 20 di fatiche, 2 e 40 di riposo». Vincenzo Battista entrò con un diploma di contabile: «Eravamo in venti con quella qualifica. Fiom e Cisl ci inserirono tra i disoccupati organizzati. Dovevamo rendere accettabile il movimento. Infiltrati, ci chiamavano proprio così». Il più arrabbiato è Luigi Lanzilli, addetto alla manutenzione: «Ho frequentato corsi di formazione per un nuovo impiego. Un nuovo lavoro che non è mai arrivato, vado in pensione con il minimo, mille euro, ne spendo 400 d'affitto, e il sindaco mi vuole pure incontrare». Invece Gennaro Intermoia scrolla le spalle. «Era un lavoro e basta. Non ho mai sentito il famoso senso d'appartenenza». Eppure nonno Nicola era in fabbrica nel 1915 e papà Antonio entrò più tardi in acciaieria. «Ero uno dei figli dei dipendenti che andavano in colonia negli anni Sessanta, al mare di Lucrino o sulle montagne di San Sicario Torinese, Val di Susa. Ricordo la Befana dei caschi gialli: a casa arrivavano biciclette, trenini, fucili. Quelli sì, anni straordinari. Da dipendente meno». Eccetto che nell'atto finale, quando Intermoia è stato impiegato in archivio: «Ho ritrovato le fotografie dell'epoca di mio padre».



Dopo trent'anni da addetto all'approvvigionamento dei magazzini, Lorenzo Marotta lascia con orgoglio: «Andiamo via a testa alta. Lasciamo spazio a grandi progetti. Il pontile è già un incanto, poi arriveranno il Turtle Point e il parco urbano». Proprio per il parco urbano, lunedì si conoscerà il nome del progettista vincitore della gara. Un futuro a cui guarda con amarezza Beniamino Cirillo, assunto nel '77 al reparto ferroviario, passato attraverso cockeria, cassa integrazione, vigilanza e smantellamento: «Mi sento buttato fuori. Altri sono subentrati a fare il nostro lavoro. Ho nostalgia persino del fuoco. Ho una figlia diplomata e un'altra laureata, ma in azienda mi hanno fatto capire che spedire i loro curriculum sarebbe inutile. Per i figli degli ex impiegati non c'è spazio, forse vogliono tagliare ogni radice».
La nuova vita dei caschi gialli, chissà dove comincia. Carmine D'Ausilio Migliaccio, ex guida ai carri ponti e addetto al carico delle navi al pontile, dice che «sarà terribile, però si sapeva, eravamo una famiglia, invece temo che d'ora in poi la giornata non passi mai. Non riuscirò a dimenticare». Non deve.

Repubblica Napoli, 30 giugno 2006

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