lunedì 25 ottobre 2004

Il tempo di mister Lambert

Bagnoli
La prima sorpresa fu scoprire che il 150 era scomparso dalle strade. A dire il vero, andava considerata una presenza paranormale già all'epoca in cui esisteva: tempi d'attesa imprevedibili, e un viaggio di settanta - ottanta minuti per tagliare la città da una sponda all'altra, Piazza Garibaldi fino a Bagnoli Dazio. Più che un autobus, era un invito a mettersi nelle mani di Dio, e spesso la fede ne usciva scossa. Jonathan Lambert mancava da vent'anni. Aveva conosciuto la Napoli del colera e l'aveva salutata nei giorni del terremoto, imparando ad afferrarla un po' alla volta, barricato dietro i ritmi frenetici del suo lavoro da traduttore per la campagna italiana della Goodgrass & Yearchar, un'industria chimica della Pennsylvania.



Nella zona dell'Italsider, due stanze e accessori erano il benefit aziendale a sua disposizione; e dalla poltrona sistemata davanti al balcone del soggiorno, mister Lambert si sorbiva ogni sera lo spettacolo del cielo che s'infiammava di rosso. Poteva finanche sembrare una pennellata di Matisse, se non fosse stata opera dell'alito di ferro d'un altoforno. Ne portava la firma e l'odore. Una visione immutabile, accompagnata a intervalli di otto ore da un sottofondo operaio di sirene, il segnale assordante che spezzava le fatiche quotidiane di migliaia di uomini, restituendoli finalmente ai figli, e alla vita. Erano altri gli sforzi di Lambert. Il primo gli imponeva di dribblare un macello quotidiano di lamiere e clacson per raggiungere l'ufficio, lungo un percorso d'una dozzina di chilometri, sfiancanti come i sentieri di Maratona e tortuosi come il Golgota. L'altro, ma ben retribuito, era riportare in un inglese accettabile l'italiano incomprensibile delle istruzioni d'uso dei medicinali. Spesso scriveva viaggiando, ingobbito sul sediolino, almeno guadagnava tempo. Un giorno aveva calcolato che a bordo del 150 era riuscito a sbrigare il 20 per cento del suo lavoro. Così aveva speso otto anni a Napoli, lasciata definitivamente nel Natale dell'Ottanta, un mese dopo il terremoto.

Anche la paura aveva avuto un ruolo nell'affrettare il rientro a Philadelphia. Il trentenne d'allora, adesso, tornava con una missione nuova, e il ruolo di responsabile delle risorse umane di un colosso della tecnologia digitale, che in Napoli - chissà perché - aveva individuato un punto strategico per il proprio sviluppo oltre Oceano. Lambert sfogliò le pagine d'un quotidiano con le offerte di lavoro, imparando che in Italia oggi bisogna essere un buon traduttore anche solo per sapere quale posto stai cercando: project manager, key account o sales supervisor? S'accorse che la nuova smania europeista, in città, aveva portato anche altro, tra cui una nuova rete di trasporti, fatta di metrò, navette e circolari, tutte concepite su tragitti brevi e frequenze rapide. Napoli come una qualunque Groningen, Lione o Malmoe. Miracolo. Perciò addio 150 e simili, bella rivoluzione rispetto ai suoi tempi. Non aveva memoria neppure di ciò che piazza Plebiscito era nel frattempo diventata, e quasi stentava a credere che quell'oasi pedonale fosse il gigantesco deposito di pullman d'una volta.

Jonathan si ritrovò a passeggiare nel deserto lasciato da ricordi ormai inattuali, vecchi budelli che Napoli restituiva sotto forma di strade gonfie d'eleganza, ma svuotate di ogni flashback riconoscibile. Eccetto uno. Quell'antica bottega da orologiaio sistemata sempre lì dov'era allora, con la stessa insegna, la stessa porta e lo stesso proprietario, Tommaso Visconti, un omino appena appena sfiorato dal passare del tempo. Aveva aggiunto alla sua vita un po' di grigio alla punta dei baffi e un pacemaker al centro del petto. In quelle mani d'artigiano, vent'anni prima, Lambert aveva affidato un orologio da taschino da riparare, dimenticando chissà come d'andare a ritirarlo prima di volarsene in America. E ora, lì, con lo sguardo schiacciato all'unto della vetrina, si domandava se fosse una follia fare un romantico tentativo di recupero. Lo era, ma lo fece. Entrò. L'omino stava scuotendo con una forcina sottile i meccanismi inceppati d'un cucù, e vai a capire che se ne fanno oggi d'un cucù.
«So che è una richiesta impossibile», accennò Lambert, poi raccontò tutto quello che doveva.
Tommaso Visconti non ricordava, ma gli chiese d'aspettare. S'armò di tutta la propria flemma, salì con una scala in cima al ripostiglio e prese a trafficare in una scatola di latta. Parlava un italiano placido, condito da una cadenza napoletana che sembrava finta, una parodia, tipo Manfredi che vende il caffè sui treni.
«Ha detto tondo, vero?».
Tondo.
«Ha detto col disegno d'una luna e una locomotiva, vero?».
La luna, sì, e la locomotiva.
«Ha detto russo, vero?».
Russo.
L'omino scese ancora più lentamente di quanto fosse salito, un'impresa mondiale, portando al banco la cartavelina bianca in cui era avvolto un oggetto d'argento. Tondo, con la luna, la locomotiva, e ovviamente russo.
L'aveva trovato.
Lambert evitò di commuoversi solo perché sapeva che in certi momenti non si deve: «Posso portarlo via, vero?».
Don Tommaso si strinse in una smorfia, arricciò il naso, e sempre lentamente scosse la testa. Era evidentemente un no. Lambert s'irritò, sapeva arrabbiarsi pure in italiano.
«Come sarebbe no? è mio. Mi dica quanto le devo, ma deve restituirmelo. Anche se sono passati vent'anni».
L'omino sorrise sghembo, pareva mortificato, ma tirò a sé l'orologio con aria professionale.
«Mi spiace. è pronto giovedì».
Fuori pioveva, come sempre quando Napoli non si sopporta.

pubblicato su Repubblica Napoli il 24 ottobre 2004

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