venerdì 10 maggio 2019

Due o tre cose sulla superiorità del calcio inglese

Se per le quattro squadre in finale di Coppa dobbiamo celebrare il calcio inglese, sarà bene definire subito cosa intendiamo per calcio inglese, cosa c’è dentro la scatola che porta questa etichetta e dove risiede la sua superiorità.
Come hanno fatto quattro squadre di uno stesso Paese ad arrivare davanti a tutti? Ci sono riuscite perché non sono affatto quattro squadre di uno stesso Paese.
È più corretto chiamarlo il calcio degli inglesi, cioè una loro proprietà, ma è un calcio creolo - come quello visto agli ultimi Mondiali, dove 3 giocatori su 10 avevano origini o nascita in un paese diverso da quello per cui erano in campo - cresciuto nella mescolanza con i geni altrui, tanto per cominciare con le idee delle scuole tecniche e dei quattro allenatori stranieri che sono alla guida di Liverpool (un tedesco), Tottenham (un argentino), Arsenal (uno spagnolo nato nei Paesi Baschi, al confine con la Francia) e Chelsea (un italiano, tosco-napoletano). La Premier è diventata nell’ultimo decennio il campionato in cui più ci si mischia: il 69% dei calciatori viene dall’estero. Lo scherzo della storia è che un raccolto tanto vistoso arriva nel momento in cui politicamente l’Inghilterra ha scelto l’isolamento dal resto dell’Europa.

La Premier viene giudicata da tempo una sorta di Nba del calcio, ma tutto sommato in modo improprio se per Nba intendiamo il torneo dei migliori professionisti. I migliori nell’ultimo decennio erano in Spagna, non solo Messi e Ronaldo. Fra i primi tre del Pallone d’oro manca un calciatore della Premier addirittura dal 2008 (Torres, allora al Liverpool). Un intervallo tanto lungo c’è stato solo fra 1983 (Dalglish) e 1993 (Cantona), come dire che per qualità e visibilità individuali, la Premier è tornata all’epoca del bando dalle Coppe post Heysel. La Liga nel decennio ha invece preso per sé 27 posti da podio su 30. I libri d’oro delle Coppe confermano con chiarezza dove sia stata la superiorità: le ultime cinque Champions vinte da Real e Barça (due derby in finale) più sei delle ultime nove Europa League con Atletico Madrid e Siviglia.

Se per Nba del calcio intendiamo i più ricchi, ci avviciniamo al vero. La Premier è il campionato in cui sono concentrate sei fra le dieci squadre più benestanti al mondo (tutte più della Juve), nove fra le prime 20 (il Newcastle e il West Ham fatturano più del Napoli), 13 fra le prime 30 (il Brighton fattura più dell’Ajax, o del Benfica, o dell’Atalanta, fate voi). Un campionato opulento, talvolta con valutazioni fuori mercato. Eppure a lungo deludente in campo europeo. Nel marzo di quattro anni fa Oliver Kay, prima firma del calcio del Times, scriveva: “Che pessimo periodo per l'élite della Premier. E che ilarità deve causare altrove in Europa, dato che, con gli introiti commerciali e televisivi, al tempo in cui il fatturato annuale del West Ham sta per superare quello dell'Inter, i club inglesi trovano sempre modi nuovi per prestazioni deludenti". Kay metteva l’accento sullo "stravagante reclutamento", sulla noncuranza dei meccanismi difensivi e su una sempre più accentuata anarchia tattica. 

Alla fine della stagione scorsa, la piccola Italia dal campionato di cui si dice sempre tutto il male possibile era arrivata a 3 punti di distacco dall’Inghilterra nel ranking Uefa, dopo aver nel frattempo superato la Germania. Sempre in quel periodo di 4 anni fa la posizione dell’Independent era questa: "I manager europei battono quelli di scuola inglese per la tattica". La vecchia tattica. In sostanza gli inglesi sentivano che gli mancava ciò che da quest'altra parte fa orrore a tanti.  Le inglesi hanno perso qualche colpo negli anni contro le italiane: il Tottenham pre-boom era stato eliminato dalla Fiorentina, a Napoli hanno perduto dal 2012 in poi Chelsea Arsenal e pochi mesi fa il Liverpool, l'Inter in autunno ha battuto il Tottenham. Molti dei pregi che abbiamo sempre attribuito alla Premier, in Inghilterra venivano vissuti come un peso. La famosa intensità che a noi pare la chiave di tutto, lì l’hanno chiamata stress. Il Boxing Day che ci piaceva tanto e che abbiamo copiato, in Inghilterra è criticato dai calciatori che chiedono il Natale libero, dai tifosi a cui mancano in quei giorni i trasporti pubblici per andare allo stadio, dai ct che nelle fasi finali di Europei e Mondiali arrivano coi nazionali a pezzi. Perfino gli stadi salotto, negli anni senza risultati brillanti nelle Coppe, erano stati individuati come un problema: troppo freddi. Il Chelsea si era spinto a immaginare l’introduzione di effetti sonori artificiali da diffondere attraverso gli altoparlanti. Esultanze registrate come le risate negli sketch di Benny Hill.
Gli allenatori, questo è un punto importante. Gli ultimi 18 titoli di fila sono stati consegnati dal calcio inglese fra le mani di uno straniero. Dopo l’addio di Ferguson, nessun britannico è più riuscito a vincere qualcosa. Ferguson era peraltro un piccolo anti-corpo fra spagnoli (Martinez e la Coppa col Wigan), olandesi (Hiddink al Chelsea), danesi (Laudrup con lo Swansea), portoghesi (Mourinho, ancora Chelsea), francesi (Wenger con l’Arsenal) e soprattutto italiani (col Chelsea prima Ancelotti e poi Di Matteo, Mancini col City). L’ultima Coppa è stata un regalo di Di Matteo, subentrato in corsa a Vilas-Boas. Quella del 2005 a Liverpool ha la firma spagnola di Benìtez. Se non fosse stato per lo scozzese Ferguson, l’ultimo allenatore britannico in una finale di Coppa dei Campioni sarebbe vecchio di trent'anni, quel Terry Venables che con il Barcellona post-Maradona e pre-Cruyff perse ai rigori dalla Steaua.

Eppure li abbiamo chiamati a lungo maestri, e maestri erano davvero. Il calcio quasi ovunque è arrivato a bordo delle navi inglesi. Il sistema WM, papà del 3-4-3, è stato inventato da Herbert Chapman. Da noi il Genoa ha dominato i campionati dei pionieri grazie a James Spensley. Herbert Kilpin fece vincere per la prima volta il Milan. William Garbutt veniva dalla cintura di Manchester e fu il primo a introdurre in Italia allenamenti professionali: tre scudetti con il Genoa fra il 1915 e il 1924. Se ancora oggi gli allenatori sono i "mister", si deve soprattutto all'influenza della sua personalità sul movimento italiano. Leslie Lievesley era il preparatore atletico arrivato dal Derbyshire a cui la Figc consegnò i muscoli della Nazionale per le Olimpiadi di Londra del '48; l'anno dopo fu tra le vittime della sciagura di Superga. Sempre un maestro inglese, si chiamava Jesse Carver, riportò la Juve allo scudetto dopo la scomparsa del Grande Torino, era il 1950, fu considerato un innovatore e il primo a introdurre la marcatura a zona in serie A.

Noi eravamo già campioni del mondo, due volte, e loro non ancora: eppure gli anni ’50 si aprirono con Crawford sulla panchina del Bologna, Soo a Padova, Neville a Bergamo. La Roma aveva Stock, la Sampdoria Dodgin. Finirono esonerati entrambi nello stesso anno, stagione '57/58, e forse fu allora che l'Italia sentì di non avere più lezioni da prendere. In Gran Bretagna si sarebbero fatti un nome Ramsey, Shankly, Busby, Clough, Paisley. Ma noi ci stavamo dando al catenaccio per smarcarci dal WM, difesa e contropiede, fino a farne un marchio, un vanto, una scuola, fino a chiuderci in un felice isolazionismo tattico. Niente britannici in panchina da noi per circa quarant’anni: neppure dopo la riapertura delle frontiere, quando era la serie A la Nba del calcio. Nulla fino all'Hodgson chiamato dall'Inter nel '95, già in era pay-tv, quando i soldi dei diritti hanno rilanciato il torneo inglese.
L'ultimo allenatore inglese a vincere il campionato è stato Howard Wilkinson, nel '92 con il Leeds. Dev'essere per questo motivo che il campionato più ricco del mondo, prima di mettersi a inseguire i fuoriclasse, sta scegliendo di spendere i suoi soldi per portare a casa le menti migliori (Guardiola, Klopp, Pochettino, Bielsa) e le ultime novità (Sarri, Emery). Una cessione di sovranità, i migliori tecnici inglesi hanno scelto di ritirarsi a lavorare nelle Academy e insegnare tecnica. Dopo la finale degli europei under 21 del 2013, il Telegraph si lamentava che nelle Academy dei club inglesi non nascesse da tempo un numero 10 dotato di fantasia, uno "alla Insigne" scrissero. La federazione ha lanciato un piano a lungo termine per vincere i Mondiali del 2022. Il luogo simbolo di tutto ciò è St. George’s Park, 13 campi di calcio di cui uno è la replica di Wembley, una palestra e un hotel. L’idea è ripetere il miracolo di Clairefontaine, l’accademia francese aperta nel 1988: dieci anni dopo arrivò il titolo mondiale. Matt Crocker, a capo del progetto per lo sviluppo tecnico, ha spiegato: “Non bisogna trovare qualcuno che reinventi la ruota, bisogna prendere la lezione che arriva da Olanda, Spagna, Francia, Germania e farla nostra”. Come la Gran Bretagna ha già saputo fare in campo olimpico, passando dai 9 ori di Atene 2004 ai 27 di Rio 2016. Oppure nel ciclismo, trasformando pistard in stradisti e cogliendo nel 2018 Giro, Tour e Vuelta.

Il calcio inglese si è messo al lavoro per rifondarsi. A cominciare dai ragazzi. Le loro nazionali giovanili sono già esplose: titolo mondiale under 20, finale europea under 19, semifinali con under 21 e under 17. Nel 2012 la Premier ha introdotto l’EPPP, Elite Player Performance Program, per produrre e lanciare calciatori in casa propria con allenatori qualificati, educatori a sostegno. Quest’anno c’è stato spazio in campo per 44 ragazzi inglesi sotto i 23 anni, 22 sotto i 21 anni (in Serie A non molti di meno: 43 under 23 e 15 under 21). Perciò il calcio degli inglesi è tutt’altro che già compiuto. È un calcio in evoluzione e in cammino. Ma bisognerà stare attenti a dare per defunti altri modelli, a ignorare che su certi risultati regnano l'imponderabile e la casualità. Messi non può essere un fenomeno nella semifinale d’andata e una zavorra al ritorno. Il calcio si diverte spesso a smascherare le nostre ricostruzioni teoriche post-risultato. Solo due anni fa elogiavamo il modello Germania, che aveva vinto la Confederations con molti U21, mentre all'Europeo U21 aveva portaro ragazzi meno esperti, vincendo pure quella. 

La vera forza del calcio degli inglesi è nella loro voglia di avere un sistema che cresca a una stessa velocità, nazionale e club, tutti i club, senza negare a nessuno un’occasione. Dall'accordo tra Sky e BT Sport, alle venti società della Premier League sono arrivati 2,7 miliardi di euro. Il 50% della somma viene divisa in parti uguali tra tutti, il resto viene ripartito in base ai passaggi tv in diretta (25%) e alla posizione in classifica (25%). Il City primo nel 2018 aveva incassato 149 milioni, il Wba ultimo 94. In Italia la distanza è stata tra i 107 della Juventus e i 24 del Benevento.

È così che sei squadre inglesi sono fra le 20 più ricche in Europa. È così che il Fulham può permettersi di fare un mercato da 100 milioni (eppure retrocedere) oppure il Tottenham costruirsi uno stadio e un futuro pur vendendo Bale. È così che in 4 possono mettere il loro muso davanti alle altre europee.

3 commenti:

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