Tutto quello che si trovava cinquant'anni fa sulla scena della cultura pop italiana non c'è più. Carosello ha smesso di esistere nel 1977, Canzonissima due anni prima, il cinema ha rinunciato ai poliziotteschi, il Guardiano del Faro non fa un disco da tempo. Ma se una qualunque partita di calcio in qualunque angolo del mondo finisce 4 a 3, anche senza pubblico, non c'è nessuno che non pensi a Italia-Germania, semifinale della Coppa Rimet in Messico, i Mondiali, 17 giugno 1970.
È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L'abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l'abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L'abbiamo vista all'epoca in bianco e nero e la rivediamo — ogni volta che le televisioni la rimandano in onda — a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo — conoscendoci — come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario — conoscendosi — come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l'hanno chiamata el partido del siglo — la partita del secolo — e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l'Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo.
Questo racconta Maurizio Crosetti in " 4 a 3", il libro in edicola con Repubblica e in libreria per Harper Collins Italia: le storie dei tredici cavalieri italiani che fecero l'impresa e di otto fra i tedeschi. Una cronaca sentimentale moltiplicata per ventuno giovani uomini, che si apre e si chiude — non è un caso — con i due portieri, da Enrico Albertosi a Sepp Maier: i due che per convenzione, per cliché e soprattutto per davvero, furono i più soli fra tutti in mezzo al campo. Il libro è il grande romanzo popolare di una nazione bloccata davanti alla tv — la partita cominciò quando in Italia era mezzanotte — ed è anche un diario personale e familiare di quella notte, un padre e un figlio di 8 anni, uniti dall'1-0 di Roberto Boninsegna al 4-3 di Gianni Rivera.
Boninsegna è anche il primo che in quella notte tocca il pallone. Crosetti scrive che nelle sue vene "scorre l'arte dell'agguato. Non è mai stanco". È certamente una notte di campioni. Di Beckenbauer che a riguardarlo oggi è "come rileggere Thomas Mann, è come riascoltare Mozart. Nel caso di questo giocatore unico e irripetibile saltano le categorie, non ci sono più musica o letteratura o pittura o sport, c'è solo bellezza". Di Gigi Riva, «che sta attraversando in quel periodo i tormenti di un amore fuori dai canoni. Prenderà a ottobre il soprannome, Rombo di tuono , che lo distinguerà per sempre, intanto gli basta essere el pie izquierdo del diablo , il piede sinistro del diavolo, come scrive un giornale messicano. È una partita leggendaria: accanto agli eroi, ci sono gli antieroi, gli accenti sdruccioli che movimentano il ritmo dei soliti piani. Fabrizio Poletti è «il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo è la miccia che fa esplodere la magnifica follia. Entra a freddo in un mondo più grande di lui e lo pasticcia, lo ingarbuglia, inciampa, s'imbroglia, e la somma di tutti questi errori produce il risultato perfetto». Che vita sarebbe senza gli imperfetti? Imperfetta del resto fu tutta la partita secondo il più grande degli analisti di sport in Italia. Gianni Brera lavorava al Giorno con il suo bagaglio di ideologia italianista e le teorie sulla necessità per noi mediterranei di giocare d'astuzia, rinserrarsi e colpire, difesa e contropiede. Figurarsi come poteva prendere sette gol segnati tutti assieme. «Il calcio giocato — scriverà — è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico- tattico. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?». Fu la prima volta degli italiani in strada con i clacson. Il calcio diventò una febbre vera quella notte.
È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L'abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l'abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L'abbiamo vista all'epoca in bianco e nero e la rivediamo — ogni volta che le televisioni la rimandano in onda — a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo — conoscendoci — come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario — conoscendosi — come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l'hanno chiamata el partido del siglo — la partita del secolo — e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l'Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo.
Questo racconta Maurizio Crosetti in " 4 a 3", il libro in edicola con Repubblica e in libreria per Harper Collins Italia: le storie dei tredici cavalieri italiani che fecero l'impresa e di otto fra i tedeschi. Una cronaca sentimentale moltiplicata per ventuno giovani uomini, che si apre e si chiude — non è un caso — con i due portieri, da Enrico Albertosi a Sepp Maier: i due che per convenzione, per cliché e soprattutto per davvero, furono i più soli fra tutti in mezzo al campo. Il libro è il grande romanzo popolare di una nazione bloccata davanti alla tv — la partita cominciò quando in Italia era mezzanotte — ed è anche un diario personale e familiare di quella notte, un padre e un figlio di 8 anni, uniti dall'1-0 di Roberto Boninsegna al 4-3 di Gianni Rivera.
Boninsegna è anche il primo che in quella notte tocca il pallone. Crosetti scrive che nelle sue vene "scorre l'arte dell'agguato. Non è mai stanco". È certamente una notte di campioni. Di Beckenbauer che a riguardarlo oggi è "come rileggere Thomas Mann, è come riascoltare Mozart. Nel caso di questo giocatore unico e irripetibile saltano le categorie, non ci sono più musica o letteratura o pittura o sport, c'è solo bellezza". Di Gigi Riva, «che sta attraversando in quel periodo i tormenti di un amore fuori dai canoni. Prenderà a ottobre il soprannome, Rombo di tuono , che lo distinguerà per sempre, intanto gli basta essere el pie izquierdo del diablo , il piede sinistro del diavolo, come scrive un giornale messicano. È una partita leggendaria: accanto agli eroi, ci sono gli antieroi, gli accenti sdruccioli che movimentano il ritmo dei soliti piani. Fabrizio Poletti è «il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo è la miccia che fa esplodere la magnifica follia. Entra a freddo in un mondo più grande di lui e lo pasticcia, lo ingarbuglia, inciampa, s'imbroglia, e la somma di tutti questi errori produce il risultato perfetto». Che vita sarebbe senza gli imperfetti? Imperfetta del resto fu tutta la partita secondo il più grande degli analisti di sport in Italia. Gianni Brera lavorava al Giorno con il suo bagaglio di ideologia italianista e le teorie sulla necessità per noi mediterranei di giocare d'astuzia, rinserrarsi e colpire, difesa e contropiede. Figurarsi come poteva prendere sette gol segnati tutti assieme. «Il calcio giocato — scriverà — è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico- tattico. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?». Fu la prima volta degli italiani in strada con i clacson. Il calcio diventò una febbre vera quella notte.
[uscito su Repubblica il 15 giugno 2020]
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